Demansionamento lavorativo: quando si configura e come tutelarsi

Demansionamento lavorativo: in quali situazioni si configura e quali sono i riferimenti giurisprudenziali da tenere presente? Nell’approfondimento troverai tutte le specifiche di cui hai bisogno.

La questione del demansionamento lavorativo è molto sentita nell’area sanitaria, soprattutto per quelle categorie professionali che, a causa delle croniche carenze organizzative delle aziende pubbliche o nelle strutture private, vengono spesso chiamate a supplire a deficienze strutturali svolgendo mansioni inferiori a quelle previste dal proprio inquadramento professionale.

Il contratto di lavoro, che viene sottoscritto al momento dell’assunzione, riporta l’inquadramento del dipendente in una specifica categoria, individuando il livello del contratto collettivo applicato al rapporto.

Questo significa che il datore di lavoro deve adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto, per cui ogni successiva modifica, che dovesse adottarsi durante il rapporto di lavoro, viene sottoposta a precisi limiti stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

Con il termine “demansionamento” si intende l’assegnazione del lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento, complessivamente inferiore, rispetto a quello stabilito dal contratto individuale di lavoro, ovvero a quelle svolte dal medesimo durante l’ultimo tratto della sua carriera lavorativa.

La fattispecie del demansionamento si concretizza, pertanto, nell’attribuzione al lavoratore di mansioni "inferiori" rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza, dove il limite si ricava direttamente alla disciplina codicistica del rapporto di lavoro e, più specificatamente, dall'art. 2103 c.c., che disciplina l’esercizio del potere datoriale di modificare le mansioni del dipendente nell’ambito della migliore gestione dell’organizzazione aziendale.

Normativa di riferimento sul demansionamento

Questo fenomeno trova spazio nell’art. 2103 c.c. che, nella sua formulazione precedente alla riforma portata dall’art. 3 del Dlgs. 81/2015 (meglio noto come Jobs Act), prevedeva che al lavoratore dovessero essere assegnate le mansioni per le quali era stato assunto, ovvero quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che avesse successivamente acquisito, oppure riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Nell’ambito del pubblico impiego, la disciplina ha sempre seguito quanto disposto dall’art. 52 del D. Lgs. 165/2001 a tenore del quale: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure concorsuali o selettive”.

La ratio di entrambe le norme era sempre e comunque quella di tutelare, con un presidio rafforzato dalla riconosciuta inderogabilità del disposto, la dignità e professionalità del lavoratore, che di fatto correvano il rischio di venir vulnerate dall’eventuale assegnazione a mansioni inferiori a quelle pattuite.

Il principio di equivalenza dopo il Jobs Act nei casi di demansionamento

Con l’avvento del Jobs Act si è quindi voluto predisporre un sistema maggiormente elastico per cui l’eventuale demansionamento avrebbe dovuto apprezzarsi secondo i criteri che non richiedono più l'equivalenza delle mansioni, ma solo la riconducibilità allo stesso livello e categoria legale.

Posta la possibilità di spostamento "in orizzontale" nel rispetto delle mansioni corrispondenti al livello e categoria legale di inquadramento, non è più richiesto un giudizio di vera e propria "equivalenza" rispetto alle mansioni effettivamente svolte in passato. 

In poche parole, si è giunti ad una nozione di demansionamento di natura maggiormente formale-giuridica rispetto a quella previgente, che invece imponeva di ricavare l'"equivalenza" da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura "in concreto" delle nuove mansioni svolte.

Ipotesi di demansionamento legittimo

Al Jobs Act si deve quindi l’introduzione di alcune specifiche situazioni in cui è consentito al datore di lavoro operare il demansionamento del dipendente, ciò risultando permesso:

  • nel caso in cui la variazione degli assetti organizzativi dell’azienda incidano sulla posizione del lavoratore. In questa situazione si tratta di un atto unilaterale del datore di lavoro che presuppone un giustificato motivo oggettivo afferente alla gestione dell’impresa (art. 2103, comma 2, c.c.).
  • Nel caso in cui il passaggio a mansioni inferiori sia previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (art. 2103, comma 4, c.c.);
  • Nel caso in cui sia oggetto di apposita modifica contrattuale stabilita in sede protetta, rispondendo ad un’esigenza specifica del lavoratore (ad esempio, conservazione del posto di lavoro, sviluppo nuove competenze professionali o miglioramento delle condizioni di vita, ex art. 2103, comma 6, c.c.).

In tutti e tre i casi è comunque necessario che il mutamento di mansioni sia formalizzato per iscritto al lavoratore (art. 2103, comma 8, c.c.) e, ove necessario, impone al datore di lavoro di assicurare un adeguata formazione del dipendente circa le nuove prestazioni richieste.

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Demansionamento e retribuzione: come si configura?

Nei casi di demansionamento legittimo è comunque garantito al lavoratore sia il mantenimento del livello di inquadramento, che la stessa retribuzione che gli spettava in precedenza, ovviamente ad esclusione di quelli strettamente correlati alle indennità proprie delle mansioni assegnate.

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Risarcimento danni da dequalificazione professionale ed onere della prova

Ai sensi del principio generale sancito dall’art. 2697, primo comma, c.c. il lavoratore che assuma di aver subito un demansionamento illegittimo è tenuto ad allegare e dimostrare gli elementi di fatto posti a fondamento della propria pretesa, che consistono nella descrizione delle mansioni concretamente assegnate e quindi svolte, nonché nel livello di inquadramento, evidenziando la discrepanza fra quello a cui avrebbe diritto e quello al quale è stato condotto per effetto della condotta datoriale illegittima.

Di recente, la Cassazione ha affermato che, nel pubblico impiego, è onere del lavoratore allegare le mansioni effettivamente svolte, il comparto di appartenenza e il proprio livello di inquadramento, quando egli lamenti un danno da dequalificazione professionale, mentre è dovere del giudice porre a raffronto tali elementi con la contrattazione applicabile (Cass. Lav. ord. n. 4279/2024)

Il danno professionale da demansionamento o da dequalificazione professionale, si articola poi in diverse componenti e più specificatamente:

  • Danni patrimoniali, intesi come perdita economica dovuta alla mortificazione della capacità professionale del lavoratore e come danno da perdita di chances per il lavoratore.
  • Danni non patrimoniali, come il danno alla personalità e dignità del lavoratore, all’immagine e alla vita di relazione, oltre al danno esistenziale e biologico (c.d. alla salute).

In sede giudiziaria, la prova del danno è a carico del lavoratoreex. art. 2697 c.c, che ha l’onere di dimostrare – anche tramite presunzioni – l’esistenza e l’entità dello stesso, nonché il relativo nesso di causalità conseguente al comportamento del datore di lavoro. 

Infatti, il danno da demansionamento non è automatico e la sua prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, che possono riguardare la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione ed i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone (Cass. Lav. ord. 2122/2023).

Se il lavoratore deduce un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro (ex. art. 2103 c.c) quest’ultimo dovrà a sua volta dare prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero provare che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari, oppure, a titolo esemplificativo, ex art. 1218 c.c., provare di essere stato impossibilitato ad eseguire la prestazione a causa a lui non imputabile (Cass. Lav. ord. 3529/2024).

Spetterà poi al giudice verificare, di volta in volta, quale danno sussista nel concreto, individuandone la natura e determinando, in via equitativa, l’ammontare del ristoro economico (ed. es. in misura percentuale sulla retribuzione mensile del lavoratore), dovendo altresì provvedere, se richiesto nel ricorso introduttivo, ad ordinare il ripristino della situazione lavorativa preesistente al demansionamento.

Tutela del lavoratore demansionato

Nel caso in cui il dipendente ritenga di aver subito un demansionamento illegittimo, sarà opportuno preliminarmente verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti dell’azione rivolgendosi ad un legale esperto giuslavorista, dopo di che è preferibile percorrere, dapprima, la via del bonario componimento dell’insorgente controversia, indirizzando al datore di lavoro una comunicazione scritta in cui si dichiara la disponibilità a trovare un accordo.

Se questa soluzione non troverà riscontro favorevole nell’atteggiamento datoriale, si potrà quindi adire il Tribunale in funzione di Giudice del lavoro invocando il ripristino della situazione precedente, con condanna della parte datoriale al risarcimento dei danni medio tempore patiti.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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