La sigla LGBTQ+ è un acronimo inglese (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer) il cui utilizzo si è diffuso a partire dagli anni ’90 per identificare le persone che non si riconoscono, sessualmente, nel corpo in cui si trovano: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender. Il simbolo + è stato inserito per rendere questo acronimo maggiormente inclusivo e si riferisce agli ulteriori generi come intersex, gender diverse, genderqueer, genderfluid, e molti altri.
L’appartenere a una di queste categorie di genere sessuale, naturalmente, non deve essere un discrimine nella tutela del diritto alla salute e nell’erogazione di servizi sanitari; anzi, è opportuno che l’ambiente sanitario, più di ogni altro, faccia di tutto per evitare discriminazioni insensate o fenomeni di omo/lesbo/bi/trans fobia, nel rispetto dell’art. 32 della Costituzione che stabilisce la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, senza che siano consentite discriminazioni di alcun genere, soprattutto legate all’orientamento sessuale.
I pazienti LGBTQ+, purtroppo, a volte sono affetti da minority stress, cioè stress psicologico derivante dall’appartenere a un gruppo sociale di minoranza che viene, per tale motivo, stigmatizzato dalla generalità dei consociati; da questo stress derivano, ad esempio, le difficoltà a svelare il proprio vero orientamento sessuale o la tendenza ad occultarlo. Nel lungo periodo il paziente, a causa di questa situazione, può vedere compromessa la propria salute, sia fisica che mentale.
In questo contesto si inserisce il personale sanitario, e in particolare la figura del pediatra (per i ragazzini/e/ ə) e del medico di medicina generale, che possono contribuire a migliorare il benessere psicologico delle persone LGBTQ+, aiutandoli a sviluppare comportamenti che siano vantaggiosi per la loro salute.
Le possibili discriminazioni
In ambito sanitario, un paziente LGBTQ+ che si rivolge a un medico per avere delle cure potrebbe trovarsi di fronte a pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni, rifiuti o derisioni da parte dello stesso sanitario o del personale, sia nel settore pubblico che privato: anche la semplice risatina o il parlottare tra il medico e l’infermiere può essere psicologicamente devastante per una persona che si vede discriminata senza motivo nella società a causa del suo orientamento sessuale diverso (per parafrasare un famoso film, si potrebbe dire “diverso da chi?”).
La conseguenza di tale situazione, purtroppo, è che questo tipo di paziente potrebbe decidere di non curarsi, nonostante la gravità delle sue patologie, solo per evitare di essere denigrato, schernito, o semplicemente osservato come un fenomeno da baraccone.
Le problematiche che possono ostacolare l’accesso ai servizi sanitari da parte delle persone LGBTQ+ riguardano fattori molteplici:
- Problemi legati alla situazione personale del paziente LGBTQ+, come ad esempio una situazione di depressione o comunque di negatività legata alle discriminazioni subite in società, oppure problemi (che può avere chiunque) legati all’uso di alcol o droghe,
- Problemi legati a barriere interpersonali poste dal personale sanitario, che può ad esempio manifestare un atteggiamento omofobo nei confronti del paziente oppure far apparire come patologia l’essere di orientamento sessuale diverso, arrivando addirittura a prescrivere delle cure o dei farmaci per far tornare “normale” il paziente,
- Problemi organizzativi, inerenti ad esempio semplice fatto che i programmi gestionali – regionali o privati – non prevedono la possibilità di indicare, come genere, un qualcosa di diverso da maschio/femmina, oppure legati all’assenza di reparti dedicati a un genere neutro, che non sia né maschile né femminile, o semplicemente afferenti la scelta di dove fare andare in bagno il paziente, se in quello degli uomini o delle donne.
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Le poche norme in vigore e gli auspici per il futuro
Attualmente, in Italia, sono pochissime le leggi cosiddette arcobaleno, che vanno a riconoscere dei diritti alle persone LGBTQ+:
1) La legge sulle unioni civili,
2) La legge sul riconoscimento del genere.
Il medico deve essere adeguatamente formato su entrambe, in modo da sapere come comportarsi nel caso in cui, per esempio, debba assistere una persona LGBTQ+ e abbia l’esigenza di individuare il familiare cui fornire le notizie sulla salute del paziente.
La legge sul riconoscimento del genere (legge 14 aprile 1982 n. 164) consente l’attribuzione ad una persona di un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita solo a seguito delle modifiche dei suoi caratteri sessuali, e comunque attraverso una sentenza definitiva emessa dal tribunale. Nei procedimenti per la rettifica del sesso il professionista sanitario, più che il profilo legale, deve curare quello psicologico e chirurgico, lavorando in equipe per raggiungere il benessere del paziente e tutelarne la salute. Sotto il profilo pratico, infatti, il medico non si trova di fronte a un paziente LGBTQ+ ma ad un paziente che ha un codice fiscale e un documento di identità completamente nuovo, con attribuzione del sesso maschile o femminile, senza grosse problematiche legate al genere.
Diversa è la questione relativa alle unioni civili. I professionisti del mondo sanitario, negli anni passati, si sono trovati, loro malgrado, in situazioni disagevoli e hanno dovuto – loro malgrado – negare a poveri cittadini disperati che stavano perdendo un loro caro le informazioni sullo stato di salute del loro partner, e questo solo perché non c’era una legge a loro tutela. Grazie alla legge sulle unioni civili, però, queste brutte esperienze (sia per i pazienti che per chi li assiste) sono diventate un ricordo, anche se non troppo lontano.
La legge sulle unioni civili, infatti, è relativamente giovane (legge n. 76 del 20 magio 2016), ma all’epoca suscitò molto scalpore tra gli operatori del diritto, soprattutto per le problematiche legate all’adozione. Grazie alla legge sulle unioni civili due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un’unione civile, semplicemente recandosi in Comune, innanzi a un ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni. Grazie all’unione civile i due soggetti acquisiscono, tra loro, diritti e doveri analoghi a quelli derivanti dal matrimonio, come l’obbligo alla reciproca assistenza morale e materiale, alla coabitazione e alla contribuzione ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze.
Per quel che rileva ai fini della professione medica, è importante sapere che quando due persone sono unite civilmente, i partner hanno, tra loro, il diritto reciproco di visitarsi e di assistersi sia in caso di malattia o di ricovero ospedaliero, e di essere informati sul reciproco stato di salute.
Pur non trattandosi di una normativa specifica per le persone LGBTQ+, un occhio di riguardo deve essere rivolto al trattamento dei dati personali di questi pazienti, che presentano dei profili di delicatezza e di tutela in più rispetto a quelli di tutti gli altri.
Le guide Consulcesi ci insegnano che il GDPR prevede che il trattamento di alcuni dati “particolari”, maggiormente delicati, avvenga solo previo consenso informato dell’avente diritto oppure per ragioni di pubblica utilità: è il caso dei dati relativi alla salute, ma anche di quelli sulla vita sessuale o sull’orientamento sessuale di una persona.
Dato che alcune persone LGBTQ+, talvolta, non vivono serenamente il proprio orientamento sessuale per paura di ritorsioni dall’esterno o semplicemente perché devono maturare una consapevolezza ulteriore di sé, il personale sanitario deve essere particolarmente attento e delicato nel rassicurare il paziente LGBTQ+ sul fatto che tutti i dati personali e tutte le informazioni raccolte nel corso della visita saranno trattate esclusivamente per curarlo e non usciranno mai fuori dalla porta dello studio medico/del reparto ospedaliero.
Il futuro, purtroppo, non sembra ricco di riforme che rendano meno discriminante per un paziente LGBTQ+ l’accesso alle cure. Eppure, basterebbe iniziare dalle cose semplici, per esempio aggiungendo in ogni modulo/cartella clinica/software gestionale dei dati, la possibilità di avere come genere maschio/femmina/lesbica/gay/bisessuale/transgender/altro. Questo aiuterebbe il medico ad approcciarsi sin dall’inizio con il paziente LGBTQ+ in maniera più delicata e performante per cercare di azzerare il senso di discriminazione, e sarebbe utile anche nell’erogazione della prestazione sanitaria perché spesso, in base alla patologia, le abitudini sessuali possono essere importanti.
Le necessità dei pazienti LGBTQ+ possono essere messe in luce, per i governanti, solo dai pazienti e da chi li ha in cura: un tavolo tecnico tra le associazioni di categoria, in questo senso, non farebbe male a nessuno e andrebbe a tutelare una minoranza che si sente discriminata e che invece, sotto il profilo sanitario, non dovrebbe avere tale percezione.