Mobbing, straining: quando si configura la responsabilità del datore di lavoro

Sommario

  1. Le richieste del ricorrente
  2. La differenza fra mobbing e straining
  3. La decisione della Corte di Cassazione

Recentemente la Corte di Cassazione sezione lavoro ha pubblicato un interessante ordinanza (16580  del 23 maggio 2022) nell’ambito della tematica del mobbing e degli istituti a questo correlati, tale pronuncia ha il pregio di aver approfondito anche  il concetto di  “straining”, operando una chiara distinzione rispetto a situazioni simili, ma comunque differenti.

 

Le richieste del ricorrente

La questione è insorta per l’azione di un pubblico dipendente che, sosteneva che nell’ambito del luogo di lavoro si fossero verificate una serie di condotte mobbizzanti da parte del datore di lavoro nei suoi confronti e richiedeva il conseguente risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingevano la domanda, sostanzialmente motivando che i fatti contestati, seppur pacifici fra le parti, non palesassero un intento persecutorio da parte del datore di lavoro nei confronti della sua dipendente, per cui la sindrome depressiva avrebbe dovuto riferirsi più che altro alla particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni assunte dal datore di lavoro, che ad una vera e propria condotta mobbizzante.

Il lavoratore, dunque, ha quindi presentato ricorso in Cassazione, per contestare l’esito del ricorso in appello,

La differenza fra mobbing e straining

La Corte ha quindi ritenuto opportune delineare tutte le situazioni potenzialmente riscontrabili in ambito lavorativo affermando che:

• è configurabile il "mobbing lavorativo" ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, 

• è configurabile lo "straining" quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori

• è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime, comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale ecc..) 

• si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte ha quindi respinto il ricorso presentato del lavoratore osservando che, anche se la patologia lamentata si fosse sviluppata nell’ambito lavorativo, ciò che mancava era la prova di una concreta condizione ambientale stressogena giuridicamente rilevante, che facesse sorgere la responsabilità risarcitoria derivante dallo straining.

Infatti, all’esito della fase istruttoria, è emerso come le condotte del datore di lavoro fossero sostenute da sufficienti motivazioni per cui, non potendosi individuare un profilo di colpevolezza, veniva a cadere la possibilità di applicare la tutela risarcitoria.

La Corte ha quindi ricordato che "le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico, per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.p.r. 1124/1965 e d. Igs. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 c.c."

La responsabilità del datore sarebbe configurabile quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero e nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori. Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente e inevitabilmente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.

 

Di: Redazione Consulcesi Club

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