Corte di Giustizia UE condanna Italia: le ferie non godute vanno pagate anche in caso di dimissioni volontarie

Le ferie non godute vanno pagate anche in caso di dimissioni volontarie: la sentenza della Corte di Giustizia Europea parla chiaro contro l’Italia

Sommario

  1. Normativa comunitaria sulle ferie annuali retribuite
  2. La disciplina italiana: diritto alle ferie e monetizzazione
  3. La Corte di Giustizia Europea sulle ferie non godute
  4. Contenimento della spesa pubblica: limiti e implicazioni legali
  5. Conclusioni della Corte: riconoscimento del diritto alle ferie non godute

Lo scorso 18/01/2024, la CGUE ha pubblicato una sentenza con cui è nuovamente intervenuta riguardo alla giusta interpretazione che tutti gli stati membri devono alla disciplina comunitaria sull’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute (in particolare, l’Italia coinvolta direttamente nel procedimento appena concluso) dal dipendente pubblico al termine del suo rapporto di lavoro.

Il caso prende le mosse dalla domanda presentata da un ex dipendente pubblico del Comune di Copertino che, impugnando il rifiuto oppostigli dall’ente alla sua richiesta di liquidazione dell’indennità per le ferie non godute in quanto dimessosi volontariamente, lo aveva convenuto in giudizio insistendo per l’accoglimento della sua pretesa economica. 

Normativa comunitaria sulle ferie annuali retribuite

La questione riguarda l’applicazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88 che, sul tema delle ferie annuali, prevede che:

  1. gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali.
  2. il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.

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La disciplina italiana: diritto alle ferie e monetizzazione

Individuando i principi cardine previsti dalla normativa interna, la Corte ha quindi menzionato innanzitutto l’art. 36, comma 3, della Costituzione secondo il quale “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”, per poi richiamare quanto disposto dall’art. 2109 del codice civile che, ai commi 1 e 2, stabilisce che: 

  1. il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana di regola in coincidenza con la domenica;
  2. ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.

Viene poi richiamato l’art. 5, comma 8, del D.L. 95/12, convertito in L. n. 135/12, secondo cui: “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’istituto nazionale di statistica (ISTAT) devono essere interpretati nel senso di richiedere che il pubblico dipendente dimostri l’impossibilità di fruire delle ferie nel corso del rapporto”.

La Corte di Giustizia Europea sulle ferie non godute

Il tema centrale portato alla decisione della Corte riguarda, allora, la supposta incompatibilità con l’art. 7 della direttiva 2003/88 e con l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea della normativa nazionale laddove, per motivi di contenimento della spesa pubblica e per esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, impone il divieto di pagare al dipendente un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, anche nel caso in cui costui si dimetta e non dimostri di non aver potuto godere delle ferie nel corso del rapporto lavorativo per ragioni indipendenti dalla sua volontà.

Ribadito, ancora una volta, come il diritto di ogni lavoratore al godimento delle ferie annuali retribuite costituisce un principio a cui tutti gli stati membri debbono necessariamente sottostare, senza possibilità di deroga se non nei limiti previsti dalla stessa direttiva comunitaria, la Corte ricorda che l’esercizio di questo diritto non può essere giammai subordinato a condizioni. 

Di assoluto rilievo, la precisazione per cui questo diritto non si limita soltanto al godimento delle ferie, ma include anche quello di ricevere il pagamento dell’indennità finanziaria per le ferie rimaste non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro per cui, in questi casi, per evitare che il lavoratore si ritrovi, non soltanto nell’impossibilità di fruirne, ma anche di non poter ricevere un beneficio neppure in forma monetaria, l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 prevede che l’indennizzo vada riconosciuto.

Le uniche condizioni richieste per poter ottenere il pagamento sono – a detta della Corte – il fatto che il rapporto sia cessato e, dall’altro, che il lavoratore non abbia goduto di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto, non essendo previsti dalla normativa comunitaria altri requisiti. 

Sulla scorta di questi enunciati principi, la Corte ha quindi affermato che la normativa italiana, come interpretata dalla Corte Costituzionale, per cui sussisterebbe il divieto di monetizzazione quando il lavoratore abbia posto volontariamente fine al rapporto, “introduce una condizione ulteriore a quelle espressamente previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88”, così limitando la possibilità di ottenere l’indennità che, come tale, costituisce un aspetto costitutivo del più ampio diritto alle ferie annuali retribuite.

La Corte si è poi soffermata sullo stesso testo del D.L. italiano, volendolo scrutare alla luce del principio che consente di apportare limitazioni al diritto unionale, ma sempre che risultino rispettate le condizioni sancite dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta, per cui devono essere espresse da una legge, rispettare il contenuto essenziale del diritto ed, infine, devono risultare necessarie e rispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione.

Approfondendo la disamina alla luce dei principi che precedono, si è quindi osservato che, nel nostro ordinamento, la limitazione è sì prevista da una legge (ossia, dal citato art. 5, comma 8, del decreto-legge n. 95), ma non possono considerarsi altrettanto soddisfatti gli ulteriori criteri.

Contenimento della spesa pubblica: limiti e implicazioni legali

Infatti, la norma italiana fa esplicito riferimento a motivi di contenimento della spesa pubblica ed alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico (tra cui la programmazione delle ferie e l’incentivazione di condotte virtuose dei protagonisti del rapporto di lavoro), che non trovano accoglimento nel commentato pronunciamento comunitario. 

Il primo, infatti, viene smentito direttamente dal considerando 4 della direttiva 2003/88, dove si afferma che la tutela della sicurezza del lavoratore non può essere coinvolta da considerazioni di carattere economico, nel mentre, per il secondo, dovrebbe essere finalizzato proprio a fornire il massimo rispetto del diritto del lavoratore.

Nella parte conclusiva, vengono quindi richiamati, in un unico contesto, tutti questi principi già affermati nei precedenti resi sullo stesso argomento dalla CGUE per cui, in sintesi, il diritto alle ferie annuali retribuite non può estinguersi alla fine del periodo di riferimento e/o del periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, quando il lavoratore non è stato in condizione di beneficiare delle sue ferie.

L’estinzione sarà quindi possibile soltanto nel caso in cui – come si legge – “il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse”.

Per cui, viene ripetuto come sia onere del datore di lavoro “assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un’indennità finanziaria”.

Da ciò ne discende che, laddove il datore di lavoro non riesca a dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria per far sì che il lavoratore venga posto in condizione di fruire effettivamente del previsto periodo di riposo, la dichiarata estinzione del diritto, con conseguente perdita dell’indennizzo, si devono intendere in contrasto con la normativa comunitaria.

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Conclusioni della Corte: riconoscimento del diritto alle ferie non godute

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte ha quindi concluso dichiarando che “l’articolo 7 della direttiva 2003/88 e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà”.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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