Aggressioni ai sanitari, come gestire l’emergenza nei reparti “difficili”

La dottoressa Marina Cannavò, Medico Psichiatra e psicoterapeuta, offre una fotografia puntuale dello stato dell’arte e consigli pratici per la prevenzione e la gestione del trauma a seguito di una violenza subita.

Sommario

  1. I numeri delle aggressioni
  2. I “luoghi” delle aggressioni
  3. I sanitari più “aggrediti” per genere e specializzazioni
  4. I consigli pratici

I numeri delle aggressioni

Si ringrazia per il contributo la Dottoressa Marina Cannavò, Medico Psichiatra e psicoterapeuta, Fondatrice e Cons. te Scientifico AMAD ODV

La consapevolezza dell’importanza di monitorare il rischio di violenza sul posto di lavoro come causa di stress lavoro-correlato è cresciuta notevolmente in Italia negli ultimi anni. Infatti, la diffusione dello stress lavoro-correlato e i conseguenti costi personali, organizzativi e sociali sono elevati. Ciò implica la necessità non solo di valutare l’andamento del rischio di violenza ma anche, e soprattutto, di prevenirlo. In Italia nel 2018 e nel 2019 i casi di violenza nei confronti del personale sanitario registrati dall’Inail sono stati oltre 2000 l’anno. Nel triennio 2019-2021 sono stati 4821, per una media di circa 1600 l’anno. Il 12 marzo 2024 in occasione della “Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari” l’Inail ha presentato gli ultimi dati sui casi di violenza nella sanità e assistenza sociale durante il convegno che si è tenuto a Roma presso la sede del Ministero della Salute. Nel 2022 i casi di violenza, aggressioni accertate dall’Inail, sono stati 2.243, in aumento del 14% sia rispetto al 2021:1.584 per le donne (+15%) e 659 per gli uomini (+12%). Nel triennio2020-2022 sono stati circa 6milai casi di violenza nella sanità e assistenza sociale. 

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    I “luoghi” delle aggressioni

    Oltre la metà dei casi riconosciuti dall'Inail ha riguardato il settore “assistenza sanitaria” (ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari, servizi degli studi medici e odontoiatrici, laboratori di analisi cliniche, ecc.), il 31,6% i servizi di “assistenza sociale residenziale” (soprattutto strutture di assistenza infermieristica, case di riposo e strutture per disabili) e il restante 16,5% il comparto “assistenza sociale non residenziale”. Quasi un’aggressione su tre si è verificata nel Nord-Ovest (17% in Lombardia e 8% in Piemonte), il 28% nel Nord-Est (14% in Emilia-Romagna e 9% in Veneto), il 22% nel Sud (7% in Sicilia e 5% in Puglia) e il 19% al Centro (9% in Toscana e 6% nel Lazio).

    Nel 2023 secondo i dati dell’Oneps (Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie) le aggressioni fisiche, verbali e contro la proprietà degli operatori sanitari sull’intero territorio nazionale (ad esclusione della Sicilia, che non ha trasmesso i dati) sono state oltre 16mila.Nel 68% dei casi si è trattato di aggressioni verbali, mentre il 6% si è verificato contro i beni di proprietà della vittima di violenza.

    Un’indagine preliminare condotta nel 2023 dal Coordinamento Nazionale dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) su 2.600 professionisti della salute mentale, di cui 1.400 psichiatri ha messo in evidenza che il 49% ha subito violenza nel corso degli ultimi due anni, il 74% ha subito minacce verbali negli ultimi tre mesi, il 57% degli psichiatri si sente in pericolo sul lavoro.

    Tuttavia, tutti i dati sopra riportati rappresentano solo la punta dell’iceberg perché le aggressioni, soprattutto verbali e psicologiche ma anche fisiche, non vengono quasi mai segnalate. Tra le motivazioni che inducono a non segnalare i comportamenti aggressivi sul posto di lavoro le più frequenti sono: “non so come fare la segnalazione, “è inutile, tanto non cambia niente”, “mi sento in colpa per non aver saputo gestire l’episodio”, temo di essere considerato incapace di stabilire buone relazioni con il paziente e i familiari”, “mi vergogno dell’accaduto”, “ho paura di ritorsioni”, “non ho subito conseguenze gravi”, “fa parte del mio lavoro”. Quest’ultimo punto di vista è ritenuto l’ostacolo maggiore da superare per poter affrontare in maniera adeguata il fenomeno della violenza sul lavoro. La violenza non va mai accettata, non fa assolutamente parte del proprio lavoro e dunque deve essere sempre denunciata.

      I sanitari più “aggrediti” per genere e specializzazioni

      Secondo i dati dell’Inail le vittime di violenza sono donne nel 71% dei casi (tra queste il 40% ha tra i 50 e i 64 anni), mentre per entrambi i generi il 40% ha interessato il personale sociosanitario tra i 50 e i 64 anni, poco più del 36% tra i 35 e i 49 anni, il 23% fino a 34 anni e l’1% oltre i 64 anni. I professionisti sanitari(infermieri, fisioterapisti, ecc.) rappresentano il 41% dei casi di aggressione, seguiti dalle professioni sociosanitarie (27%). 

      Gli infermieri e gli operatori sociosanitari registrano il maggior numero di infortuni, sia per la componente femminile (con incidenze rispettivamente del 25% e 31%) che per quella maschile (39% e 19%). Molte delle vittime sono professioniste donne di età compresa tra 51 e 60 anni, di nazionalità italiana, che vivono in Lombardia o Emilia-Romagna e lavorano come operatore sociosanitario o infermiere in strutture ospedaliere o in Rsa, prevalentemente in ambito psichiatrico o dell’emergenza/urgenza. Anche gli educatori professionali, impegnati con tossicodipendenti, alcolisti, disabili, carcerati, pazienti psichiatrici e anziani, sono le figure professionali maggiormente oggetto di episodi di violenza. Seguono, con il 29% dei casi, gli operatori sociosanitari delle professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali e, con il 16%, le professioni qualificate nei servizi personali e assimilati, soprattutto operatori socioassistenziali e assistenti-accompagnatori per persone con disabilità. A distanza, con il 3,5% dei casi di aggressione in sanità, la categoria dei "medici", che non comprende i sanitari generici di base e i liberi professionisti perché non sono inclusi nell'obbligo assicurativo Inail.

      In sintesi, secondo i dati dell’Oneps le professioni più colpite sono quelle degli infermieri, seguite dai medici e operatori sociosanitari; le donne sono coinvolte nei 2/3 dei casi; i luoghi più a rischio in ambito ospedaliero sono i Pronto Soccorso/Medicina d’emergenza-urgenza, le Aree di degenza e i servizi di psichiatria, mentre in ambito territoriale i luoghi più a rischio sono gli ambulatori e i servizi psichiatrici/Rems. Nella maggioranza dei casi gli aggressori sono i pazienti e i loro familiari.

      I consigli pratici

      Come riconoscere i segni

      Sicuramente è importante una formazione professionale del personale per il riconoscimento dei segni di una possibile aggressione e per l’acquisizione delle tecniche di contenimento della violenza, come le tecniche di de-escalation, la comunicazione assertiva, le tecniche di gestione dei conflitti e le strategie per gestire le situazioni difficili con i pazienti e i loro familiari. Per poter gestire nel modo più corretto e sicuro le situazioni di “crisi”, è necessario anche conoscere il ciclo dell’aggressività, uno schema delle fasi che si succedono in un episodio aggressivo. Infatti, il comportamento violento avviene spesso secondo una progressione che, iniziando dall’uso di espressioni verbali aggressive, nei casi più gravi può arrivare fino a gesti estremi come l’omicidio. 

      Il ciclo dell’aggressione è composto da cinque fasi

      1. Fase del fattore scatenante o del “Trigger”: inizia una reazione aggressiva provocata dall’assunzione di sostanze, da stress, da fattori di provocazione veri o presunti.
      2. Fase dell’escalation: si innesca l’attivazione della rabbia. 
      3. Fase della crisi: il paziente raggiunge il picco massimo dello stato di agitazione
      4. Fase del recupero: il paziente riprende contatto con la realtà che lo circonda. 
      5. Fase della depressione post-critica: compaiono sentimenti di colpa, il rimorso e la vergogna.

      Durante la fase del fattore scatenante o trigger l’intervento di elezione è rappresentato dal riconoscimento del fattore scatenante e dal tentativo della sua rimozione. Durante la fase dell’escalation, inizia l’intervento di de-escalation che deve mirare ad avviare una negoziazione con il paziente. Si possono utilizzare le cosiddette tecniche assertive per la riduzione del comportamento aggressivo, che mirano al recupero della relazione con il paziente. La comunicazione deve essere diretta, specifica e positiva, non giudicante. Nella fase critica lo stato di agitazione è massimo e l’attenzione deve essere focalizzata sulla sicurezza e sulla riduzione delle conseguenze. Alla fase critica segue quella del recupero durante la quale c’è un graduale ritorno alla linea basale, ma è una fase delicata, perché interventi intempestivi, volti a precoci tentativi di elaborare l’episodio, potrebbero scatenare una riacutizzazione della violenza. Vanno quindi evitati troppi stimoli al paziente e tentativi di discutere sull’episodio. Nella fase della depressione post-critica, il paziente potrebbe sentirsi in colpa, vergognarsi o provare rimorso: è il momento per eventuali confronti sull’accaduto. 

      I segni prodromici dei comportamenti aggressivi e violenti si manifestano con l’uso spesso di micro-espressioni della rabbia, come la rabbia controllata e la rabbia dissimulata fino alla rabbia espressa con insulti, critiche, minacce verbali, un atteggiamento non cooperativo, il tono della voce alto, la gestualità esagerata e talvolta minacciosa, l’irrequietezza motoria, il tremore, la tensione muscolare (i denti serrati, le labbra retratte, le mascelle contratte, le mani strette a pugno oppure aperte e chiuse ripetutamente), il “target stare” cioè lo sguardo fisso, oppure “the thousand yard stare” in altre parole lo sguardo perso nel vuoto segno di uno stato di realtà alterato, la dilatazione delle pupille, il rossore del volto, l’eloquio rapido, l’aumento della frequenza respiratoria e cardiaca, la sudorazione eccessiva, i segni di intossicazione da droghe o alcool, gli atti di violenza contro oggetti e il possesso di armi. Il paziente arrabbiato può assumere una postura minacciosa una posizione “di tre quarti” detta “boxer’s stance”, la posizione del pugile, con le mani alzate a livello del torace con una gamba indietro e le anche ruotate a 45%.

      Cosa fare se si percepiscono i segni

      È importante il riconoscimento immediato dei segni tipici dell’escalation della violenza per prevenire l’insorgenza dell’aggressione o la progressione di quest’ultima verso la fase critica, difficilmente trattabile, ricorrendo ad interventi verbali e non verbali di de-escalation. Premesso che non sempre è possibile prevenire gli atti di violenza, ci sono alcuni interventi di prevenzione come le tecniche verbali di ascolto empatico attivo e di talk-down che aiutano a riportare il paziente a riprendere il contatto con la realtà, riducendo la sua aggressività. Tra queste, l’abilità di ascoltare con attenzione e interesse i timori del paziente senza interromperlo, di essere empatico con i suoi sentimenti, di fornire informazioni brevi e comprensibili con un atteggiamento tranquillo e rassicurante, di parlare con un tono di voce pacato.

      È sempre opportuno presentarsi con nome e qualifica professionale, rispettare una distanza di sicurezza minima di almeno 1,5 metri e mantenere una posizione ad angolo, in modo che sia più agevole allontanarsi se necessario. Ci sono poi alcuni comportamenti che vanno evitati per tutelare la propria incolumità: non dare mai le spalle al paziente, non toccarlo mai senza il suo permesso, non tenere le mani in tasca, non fissare il paziente, non invadere il suo spazio personale, non avvicinarsi bruscamente, non assumere posture chiuse, non criticare, né giudicare, non assecondare le sue aspettative irreali né dirgli di stare calmo e non restare da soli con il paziente.

      L’obiettivo è ridurre l’intensità della rabbia del paziente agitato e cercare di riprendere il dialogo, dichiarandosi disponibili ad una soluzione e proponendo alternative concrete e possibili di trattamento. 

      Nel caso in cui il paziente sia molto agitato e ci sia un pericolo imminente per la propria sicurezza fisica è bene allontanarsi rapidamente e chiedere aiuto alla vigilanza e nei casi di rischio elevato alle forze dell’ordine.

      Cosa accade dopo un’aggressione e come superarla

      Gli episodi di aggressione sul lavoro, anche quelli di minore entità, sono importanti fattori di rischio lavorativo, con gravi conseguenze sulla sicurezza, sul benessere e sulla salute dei lavoratori. Il lavoratore che ha subito direttamente o ha assistito ad un evento di violenza o di molestia sul posto di lavoro ha una maggiore probabilità di sviluppare da un punto di vista psichico risvolti emotivi come paura, umiliazione e vergogna, abbattimento, disperazione, senso di impotenza, tristezza, rabbia, stupore e perdita di fiducia nelle proprie competenze professionali, insoddisfazione lavorativa, riduzione dell’autostima, cambiamento nelle relazioni con i colleghi, con i familiari e isolamento. 

      Nei casi più gravi può presentare aumento dei livelli di stress, burnout, disturbi del sonno, abuso di alcol e droghe, disturbi d’ansia, disturbi depressivi, disturbo post traumatico da stress acuto e cronico, aumento dell’assenteismo, perdita della motivazione, riduzione della produttività, cambiamento del luogo di lavoro, abbandono della professione fino al rischio di suicidio.

      Se un operatore a seguito di un’aggressione si sente triste, impotente, arrabbiato, prova sentimenti di colpa perché non ha saputo riconoscere né gestire l’aggressore, ha paura di tornare al lavoro, o peggio ancora presenta disturbi psichici come l’insonnia, l’ansia e la depressione è importante che possa rivolgersi ad uno psichiatra/psicoterapeuta esperto di queste problematiche. Infatti, è necessario evitare che i disturbi emotivi, lo stress e le patologie psichiatriche possano evolvere verso condizioni di sofferenza cronica, con le relative assenze prolungate per malattie, riduzione delle performances professionali e richieste di trasferimenti. 

      L’aggressione è sempre un trauma, anche se di lieve entità, e come tutti i traumi deve essere elaborato con l’aiuto di un professionista esperto. Nell’ottica di prevenire queste patologie si può ricorrere al debriefing, ovvero un intervento terapeutico post-aggressione per aiutare gli operatori a dare un senso alle loro esperienze e a prevenire il disturbo da stress post traumatico e/o il burnout. Il gruppo è condotto da uno specialista esperto. È una tecnica di pronto soccorso emotivo, deve essere effettuato a distanza di 24-76 ore dopo l’aggressione, permette di raccontare l’accaduto, descrivendo i fatti ed i sentimenti. Contribuisce a creare legami interpersonali per poter superare il vissuto di isolamento.

      Una psicoterapia individuale può essere necessaria nelle situazioni in cui la vittima di violenza ha subito, oltre alle conseguenze sulla salute psichica, importanti ripercussioni sulla sua vita lavorativa e privata. La psicoterapia è molto efficace ed in grado di produrre risultati positivi sul funzionamento lavorativo e sociale, rappresentando un’efficace forma di cura dei sintomi psichiatrici del Disturbo da Stress acuto e Post-Traumatico e di prevenzione della sindrome da burnout che spesso si sviluppa dopo un episodio di aggressione.

      Infine, una psicoterapia di gruppo dedicata agli operatori sanitari vittime di violenza sul lavoro può essere molto utile per consentire agli operatori di raccontare ciò che hanno subito, condividere con i colleghi i propri vissuti emotivi, per non sentirsi più soli, elaborare i loro pensieri, le loro emozioni e i loro sentimenti e per promuovere una cultura di tolleranza zero nei confronti della violenza sul lavoro. Nella totale riservatezza e in un ambiente sereno e sicuro possono finalmente analizzare le loro difficoltà, liberi dalla paura di essere criticati o giudicati.

      Tuttavia, non bisogna agire solo nel post-aggressione, ma è necessario intervenire per prevenire la violenza. Infatti, numerosi studi internazionali affermano che la violenza è un fattore di rischio per lo stress lavoro-correlato. Quindi prevenire la violenza significa prevenire lo stress dei lavoratori. Intervenire con la cura soltanto dopo l’aggressione, quando l’operatore sanitario ha già problematiche mediche, psicologiche e psichiatriche importanti, significa agire su una malattia già conclamata e quindi ad alto rischio di cronicizzazione. 

      L’AMAD ODV (Associazione per le malattie Ansia e Depressione) si impegna da anni per informare l’opinione pubblica che la violenza sul lavoro non è solo un problema di sicurezza ma di benessere e di salute degli operatori sanitari e di conseguenza di qualità delle cure per tutti i cittadini. Come ha dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità la violenza e le molestie nel mondo del lavoro sono una violazione e un abuso dei diritti umani, rappresentano una minaccia per le pari opportunità, hanno ripercussioni sulla salute psichica, fisica e sessuale e sulla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.

      In conclusione, come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la violenza sul lavoro è un problema di salute pubblica che mette a rischio non solo la sicurezza, ma soprattutto il benessere e la salute degli operatori sanitari e di tutti i cittadini. Pertanto, è fondamentale che insieme alle misure di sicurezza vengano attuati interventi mirati ad una diagnosi precoce dello stress lavoro-correlato e dei possibili disturbi psichiatrici, nell’ottica di proteggere la salute psichica di tutti, in primis degli operatori sanitari.

      Di: Isabella Faggiano, giornalista professionista

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