Qualità dell’aria: lo studio Lancet mostra dati drammatici
Solo 79 mila persone al mondo respirano oggi aria con quantità di PM2.5 inferiore ai valori raccomandati. È quanto emerge dalla prima ricerca su scala globale pubblicata su Lancet
27 Aprile 2023, 10:24
Sommario
L’inquinamento ambientale, e in particolare quello atmosferico, sono ormai noti per essere tra le cause di una vera e propria crisi sanitaria e climatica per le gravi conseguenze sulla qualità dell’aria. Questo, oltre a contribuire significativamente al cambiamento climatico e a posizionarsi tra le “principali cause di morte prematura e di malattia” rappresenta “il più grave rischio sanitario ambientale in Europa”, come ricorda l’Agenzia europea per l’ambiente (AEA).
A fornire nuovi e preoccupanti dati circa la portata del danno che stiamo provocando all’ambiente e alla nostra salute – attraverso l’uso di combustibili fossili con gli impianti di riscaldamento domestici, il traffico, le attività industriali, ma non solo – arriva la prima ricerca che analizza la diffusione dell’inquinamento da PM2.5 su scala globale.
Il recente studio, pubblicato su Lancet Planetary Health e condotto dalla Monash University di Melbourne con l’Accademia cinese di Meteorologia, per la prima volta quantifica la diffusione delle più pericolose particelle di particolato in tutto il mondo. Secondo la ricerca non c’è angolo del nostro pianeta privo di contaminazioni da queste particelle, in grado di penetrare nei tessuti dei polmoni e nei vasi sanguigni.
Stando a quanto rilevato infatti, solo lo 0,18% della superficie globale e lo 0,001% della popolazione mondiale sono esposti a livelli di PM2.5 inferiori a quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Guardiamo a solo una persona su centomila.
In particolare, gli esperti hanno rilevato che la concentrazione media annua di PM2.5 per il periodo di ricerca (2019) è stata di 32,8 g/m3, ossia più del doppio del livello raccomandato dall’OMS, pari a 15 microgrammi per metro cubo.
I dati a disposizione sulla qualità dell’aria
I risultati colmano un’importante mancanza nel campo degli studi sull’inquinamento, raccontano gli esperti. Infatti, finora, a causa della mancanza di un numero sufficiente di stazioni di monitoraggio nel mondo (perlopiù presenti nei Paesi ricchi) non era stato possibile avere dati complessivi.
Oggi invece, grazie alla combinazione di dati provenienti da queste in unione con quelli raccolti dagli scanner meteorologici e antinquinamento satellitari, dalle reti neurali di intelligenza artificiale e dalle valutazioni della qualità dell’aria, i ricercatori hanno potuto valutare le emissioni di PM2.5 presenti nell’atmosfera e mappare su scala globale le variazioni di concentrazione avvenute negli ultimi due decenni.
“La ricerca – ha dichiarato l’autore principale, il professor Yuming Guo della Monash University – fornisce una profonda comprensione dello stato attuale dell’inquinamento atmosferico esterno e dei suoi impatti sulla salute umana. Con queste informazioni, i politici, i funzionari della sanità pubblica e i ricercatori possono valutare meglio gli effetti sulla salute a breve e lungo termine e sviluppare strategie di mitigazione dell’inquinamento atmosferico”.
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Chi paga il prezzo più alto
Sebbene dallo studio emerga un leggero calo nel numero di giorni di alta esposizione al PM2.5 a livello globale, sono oltre il 70% i giorni che nel 2019 hanno registrato concentrazioni superiori ai livelli indicati dall’OMS.
Dallo studio emerge infatti che, se da un lato negli ultimi vent’anni (precedenti al 2019) c’è stata una diminuzione dei livelli giornalieri di poveri sottili in alcune aree dell’Europa, del Nord America e dell’Africa, sono invece aumentati in Asia meridionale, Australia, Nuova Zelanda, America Latina e Caraibi.
Ancora una volta a pagare il prezzo più alto per l’inquinamento di tutti, sono i Paesi più poveri. Non a caso, si sono osservate le concentrazioni più elevate di PM2,5 in Asia orientale (50 microgrammi per metro cubo), Asia meridionale (37,2 microgrammi per metro cubo), e in Africa settentrionale (30,1 microgrammi per metro cubo). Mentre quelle più basse sono state riscontrate in Australia, Nuova Zelanda e America meridionale.
Inquinamento atmosferico: l’Italia sul podio europeo
Uno sguardo più da vicino ci mostra una situazione europea ed italiana non meno critica. Sono ormai sempre più numerose le ricerche che raccontano di città italiane con tassi d’inquinamento ben al di sopra dei limiti indicati dall’Oms, sebbene ancora sulla soglia dei più generosi limiti definiti dall’Ue, che attualmente indica come valore medio annuo di PM2,5 da non superare i 25 microgrammi per metro cubo.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (AEA), “Qualità dell’aria in Europa 2022”, nel 2020 in tutta l’Ue circa 311mila persone hanno perso la vita a causa di polveri sottili (PM10), biossido di azoto (No2) e ozono (O3); Tra i 27 Paesi membri, l’Italia, con quasi 70mila casi, si colloca al primo posto per morti premature riconducibili all’inquinamento atmosferico.
“I valori attualmente registrati da molte città e la distanza che le separa da quello che sarà il nuovo limite del 2030 sembrano essere irraggiungibili stando all’attuale tasso di riduzione delle concentrazioni che si è registrato mediamente nelle città italiane negli ultimi dieci anni”, scrive Legambiente nel suo ultimo report “Mal’Aria di città/Clean Cities Campaign”, relativo alle concentrazioni di PM10 dal 2011 al 2021.
Cosa c’è da fare
Secondo questa indagine, per ridurre del 30% le emissioni di CO2 e raggiungere gli altri obiettivi definiti dall’Ue entro il 2030 infatti Milano, per esempio, dovrebbe abbattere del 57% le sue concentrazioni di PM2,5 (e del 78% se si considera la soglia raccomandata dall’Oms), Torino invece rispettivamente del 54% e del 77%.
Dati che non lasciano ben sperare se si pensa che tra il 2011 e il 2021, stando a quanto riporta l’indagine “mediamente ogni anno la concentrazione di PM10 nelle nostre città si è ridotta solamente del 2%”. Senza considerare che ci sono persino città in “positivo”, cioè che hanno aumentato il valore medio di PM10 nel tempo, come Catania, Pesaro, Oristano, Avellino, Ragusa. Non mancano però, seppur piccoli, progressi: le città che storicamente presentavano i livelli di inquinamento più alti (in particolare quella della Pianura Padana) mostrano riduzioni che vanno dall’1 al 5%.
“Un segnale incoraggiante per certi versi, visto che l’inquinamento sembra diminuire, ma preoccupante dall’altro perché, partendo da una situazione cronicamente critica (mediamente queste città dovranno ridurre le loro concentrazioni del 30% nei prossimi 7 anni), il trend di diminuzione è troppo lento per riuscire a rispettare i nuovi limiti normativi”, concludono gli esperti di Legambiente esortando, ancora una volta, ad agire in maniera più incisiva per la tutela della salute dei cittadini.