Il professionista sanitario, legato da un contratto di impiego con un’azienda sanitaria pubblica (o comunque dipendente di una struttura sanitaria privata accreditata o convenzionata con il SSN, trattandosi di ipotesi equiparata siccome concorrenti agli obiettivi del SSN), può essere chiamato a rispondere del proprio operato a livello penale, civile e deontologico, ma anche sotto il profilo amministrativo per tutti i danni, direttamente od indirettamente, provocati all’erario pubblico (cd. danno erariale).
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Il presupposto essenziale dell’azione per il ristoro del danno erariale è che la struttura, a causa dalla condotta del suo dipendente, abbia effettivamente sostenuto un esborso, ovvero patito un nocumento materiale, insorgendo da ciò l’obbligo di segnalazione del fatto alla procura regionale della Corte dei Conti competente. La responsabilità amministrativa comporta pone quindi un obbligo risarcitorio per tutti i danni derivati all’ente dall’inosservanza, da parte del dipendente, degli obblighi di servizio con dolo o colpa grave.
È da intendersi diretto il pregiudizio provocato specificatamente al patrimonio pubblico, come avviene ad esempio quando la condotta del responsabile incide su un bene appartenente al patrimonio della comunità (danno ad un macchinario dell’azienda), oppure indiretto qualora il pregiudizio discenda dal fatto che la Pubblica amministrazione ha dovuto risarcire un terzo per il nocumento arrecatogli dall’azione del sanitario.
Fondamenti normativi
Questa tipologia di responsabilità prende forma principalmente dall’art. 28 Cost, che di fatto sottopone tutti gli atti compiuti da dipendenti pubblici al rispetto delle leggi penali, civili ed amministrative, per poi essere declinata, più specificatamente, nell’art. 47 della l. n. 833/78, a mente del quale “lo stato giuridico ed economico del personale delle unità sanitarie locali è disciplinato, salvo quanto previsto espressamente dal presente articolo, secondo i principi generali e comuni del rapporto di pubblico impiego”.
Dello stesso tipo il disposto di cui all’art. 28, primo comma, del D.P.R. n. 761/79 laddove prevede che “in materia di responsabilità, ai dipendenti delle unità sanitarie locali si applicano le norme vigenti per i dipendenti civili dello Stato di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e successive integrazioni e modificazioni”, così correlandosi all’art. 18 del richiamato testo unico che sancisce, anche per i dipendenti del SSN, l’obbligo di risarcire l’azienda pubblica dei danni cagionati da violazioni di obblighi di servizio.
La richiamata disciplina deve poi integrarsi con le previsioni contenute nell’art. 9 della L. n. 24/17 che regolano vari aspetti che contraddistinguono l'azione di responsabilità amministra amministrativa, per dolo o colpa grave, nei confronti del professionista sanitario, esercitata dal Pubblico ministero presso la Corte dei conti territorialmente competente.
I presupposti oggettivi e soggetti dell’azione amministrativa
L’azione per danno erariale presuppone la dimostrazione, a carico del pubblico ministero procedente, della violazione degli obblighi di servizio da parte del dipendente sanitario da intendersi, secondo la giurisprudenza contabile, in senso assolutamente ampio (dalle prescrizioni inesatte alla violazione della legis artis nell’ambito di un trattamento terapeutico), nonché della concreta sussistenza perlomeno del profilo soggettivo della colpa grave.
Oltre al dolo, le cui caratteristiche possono essere agevolmente intuite, il profilo della colpa grave è invece riconnesso alla nozione di colpa professionale prevista dall’art. 1176 c.c., e quindi come violazione di quella diligenza che è lecito attendersi dall’esercente una qualsiasi attività di natura professionale, a maggior ragione da chi presiede alla tutela di un bene primario come quello della salute, costituzionalmente tutelato.
Secondo la più recente giurisprudenza, si è in colpa grave quando vi è una "macroscopica violazione di norme", "assoluta inosservanza delle più elementari regole di buon senso e di prudenza", "prevedibilità dell'evento dannoso", "sprezzante trascuratezza dei propri doveri".
È insito in questi sintagmi il particolare giudizio di disvalore da accertare in relazione alle concrete e specifiche fattispecie dannose, scaturente dal raffronto tra la condotta esigibile dall’esercente la professione sanitaria (anche in relazione al rispetto delle linee guida assunte dalla comunità scientifica nel caso concreto) e quella effettivamente attuata dal soggetto agente.
Nello specifico con riguardo all’attività sanitaria, il dipendente pubblico, per non rispondere di colpa grave, deve quindi essere adeguatamente preparato, puntualmente aggiornato sulle conoscenze raggiunte dalla comunità scientifica al tempo dell’attività posta inattese e, quindi, capace di assumere scelte diagnostiche e terapeutiche idonee al caso concreto.
Il requisito del nesso causale e la quantificazione del danno erariale
L’ulteriore requisito che deve sempre sussistere per giungere all’affermazione della responsabilità amministrativa di un sanitario dipendente pubblico concerne l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta posta in essere dall’agente e l’evento di danno, da cui è disceso il pregiudizio sofferto dall’azienda, venendo assolto in caso di mancata prova al riguardo.
A tal proposito, si osserva come, riprendendo i principi pacificamente affermati dalla Corte di Cassazione, il nesso causale fra condotta del sanitario e danno provocato sussista sia quando quest’ultimo è conseguenza inevitabile della condotta sia, in altri casi, quando questa derivazione risulti altamente probabile.
La quantificazione del danno erariale
L’ultimo aspetto di rilievo riguarda la quantificazione del danno che, con riferimento alla responsabilità sanitaria, soggiace ad alcune particolarità rispetto agli ordinari criteri di valutazione giudiziali, venendo in rilievo, da un canto, la possibilità riconosciuta al giudice di tenere in debita considerazione l’eventuale esistenza di situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato e, dall’altro, la fissazione di un limite massimo dell’eventuale condanna che, per effetto di quanto attualmente previsto dall’art. 9 della l. n. 24/17, non può superare una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo.