Buoni pasto: un diritto per sanitari con turni oltre 6 ore

I buoni pasto sono un diritto per il personale sanitario che lavora oltre 6 ore: se non concessi, è possibile richiedere il risarcimento secondo la giurisprudenza.

Sommario

  1. I limiti della discrezionalità amministrativa
  2. Requisiti per accedere al buono pasto
  3. Le decisioni dei giudici
  4. Limiti temporali per la pretesa e decorrenza della prescrizione
  5. Parametri di riferimento per la quantificazione del danno

Il diritto ai buoni pasto per il personale sanitario delle aziende pubbliche è regolato dalla normativa vigente sull’organizzazione dell’orario di lavoro, integrata della disciplina afferente il diritto al riposo, nonché dalle previsioni contenute nella contrattazione collettiva nazionale applicabili “ratione temporis”.

Dapprima viene quindi in rilievo, non foss’altro per il riconosciuto primato sulla normativa interna, l’art. 4 della direttiva europea 2003/88, che impone agli Stati membri di stabilire le misure più adeguate affinché ogni lavoratore benefici, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda le 6 ore, di una pausa secondo le modalità temporali ed operative stabilite dalla contrattazione collettiva, ovvero dagli accordi conclusi tra le parti sociali o, in loro assenza, dalla legislazione nazionale.

Questa previsione viene così replicata dall’art. 8 del D. Lgs. n. 66/2003 per cui il dipendente, qualora l’orario di lavoro superi il detto limite temporale, ha diritto a beneficiare della pausa per il ristoro delle energie psico-fisiche e per l’eventuale consumazione del pasto.

Attualmente, la disciplina di questo diritto risulta inserita, per il comparto sanitario, nel CCNL 2016-2018 dove viene stabilito che: “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui all'art. 29 del CCNL integrativo del 20/9/2001 e all'art.4 del CCNL del 31/7/2009”.

Nel richiamato art. 29 del CCNL del comparto sanità del 20/09/2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, vengono quindi declinate le modalità di erogazione del servizio mensa, ovvero dei cd. “buoni pasto sostitutivi”.

I limiti della discrezionalità amministrativa

Verrebbe da dire che proprio l’art. 29, laddove specifica che le Aziende sanitarie possono istituire il servizio mensa od in alternativa l’erogazione dei buoni pasto, parrebbe introdurre un valido sostegno all’esercizio della piena discrezionalità amministrativa in questo settore, mentre invece questa facoltà deve essere correttamente intesa alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali.

Infatti, è certamente vero che le strutture detengono completa autonomia nel decidere se introdurre o meno la mensa aziendale nella loro organizzazione, ma ciò non incide minimamente sul dovere, a loro imposto, di garantire al dipendente il pieno e legittimo esercizio del suo diritto al riposo, che include anche la possibilità di fruire di un pasto eventualmente beneficiando di previste modalità sostitutive.

La disciplina contrattuale, dunque, delega alla singola azienda soltanto la facoltà di organizzare e gestire il servizio mensa, ovvero le modalità sostitutive dello stesso servizio, mentre detta i criteri e le regole per l'attribuzione del diritto di mensa (o alle modalità sostitutive) al dipendente.

Non è quindi sostenibile la tesi della discrezionalità assoluta dell’azienda nell'assegnare il diritto al buono pasto, quale modalità sostitutiva di esercizio del diritto alla fruizione della mensa, laddove questa non sia concretamente praticabile dal personale dipendente.

Requisiti per accedere al buono pasto

Ciò posto, il personale sanitario delle aziende pubbliche ha dunque diritto a godere di buoni pasto sostitutivi al ricorrere delle seguenti condizioni:

  • L'orario di lavoro giornaliero ecceda le sei ore
  • Non sia possibile per il dipendente fruire del servizio mensa o di un altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro

A tale proposito, vale osservare come, oltre all’assenza del servizio mensa, vengono in rilievo ai fini della fondatezza della domanda anche quelle situazioni in cui, pur essendo disponibile, emerge l’impossibilità concreta del dipendente di accedervi per consumare il pasto al di fuori dell’orario di lavoro e nel rispetto del termine temporale di 30 minuti concesso.

Vi sono, infatti, circostanze che impediscono al dipendente di allontanarsi dal reparto di appartenenza per tutto il tempo necessario per fruire di un pasto, vuoi per la tipologia di attività svolta, ovvero per il ruolo ricoperto e le risorse alternative effettivamente disponibili (ad es. non ci sono altri medici od infermieri in reparto), vuoi per le concrete modalità e tempistiche di fruizione del servizio mensa (ad es. distanza dal luogo di lavoro, tempi di attesa lunghi, restrizioni nel vestiario ecc..).

Né si può sostenere, come avviene in taluni casi, che il dipendente non avrebbe diritto al buono sostitutivo, potendo fruire della mensa prima dell'inizio del turno o dopo di esso, giacché la consumazione del pasto è strettamente collegata alla pausa di lavoro e deve avvenire nel corso della stessa per consentire a chi presta servizio per oltre sei ore di fruire del riposo indispensabile per il recupero delle energie psicofisiche.

Le decisioni dei giudici

La Corte di Cassazione, da tempo, va continuamente ripetendo che, nel pubblico impiego privatizzato, il diritto al buono pasto non ha funzione retributiva, ma rappresenta unicamente un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale che, rientrando nell’organizzazione del lavoro, è finalizzata a conciliare le esigenze lavorative del servizio con quelle personali del dipendente (Cass. n. 22478/24, Cass. n. 32113/22 e Cass. n. 5547/21).

Proprio la ricerca di questo obiettivo, prioritariamente evocato anche dalla direttiva europea n. 2003/88, fa sì che, laddove il turno ecceda quotidianamente il limite delle sei ore continuative, debba essere sempre garantita al lavoratore la fruizione della cd. “pausa mensa”, ciò consentendo quel reintegro delle energie psicofisiche spese nel lavoro, propedeutico a far sì che il dipendente possa poi proseguire nella sua prestazione in condizioni di sostanziale benessere.

Questa impostazione è stata confermata anche dalla recente pronuncia n. 21440/2024, con cui la Corte di Cassazione ha voluto sottolineare come il diritto alla pausa pranzo non possa collegarsi alla fascia oraria lavorata, per cui a nulla rilevano gli orari generalmente deputati al consumo dei pasti, dato che il buono sostitutivo è dovuto al solo ricorrere del superamento del predetto limite orario a prescindere dai turni sostenuti dal dipendente.

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Limiti temporali per la pretesa e decorrenza della prescrizione

Venendo in rilievo una pretesa risarcitoria, ai sensi dell’art. 1218 c.c., nei confronti dell’azienda datrice di lavoro connessa alla mancata fruizione, da parte del sanitario dipendente, della pausa per la mensa durante il turno di lavoro superiore alle 6 ore, consente di ritenere inapplicabile il termine di prescrizione quinquennale operante solo per le richieste di spettanze retributive, con conseguente operatività dell'ordinario termine decennale.

Parametri di riferimento per la quantificazione del danno

L’azione è diretta al riconoscimento del diritto alla fruizione del buono pasto nonché al pagamento (anche a titolo di risarcimento del danno) del controvalore dei buoni pasto arretrati, il cui valore può essere calcolato secondo il numero delle giornate di effettiva presenza al lavoro, per le quali spettava il buono pasto, moltiplicato per il valore dello stesso indicato nel regolamento/accordo/delibera aziendale.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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