Farmacista demansionata a banconista: si configura lo straining

Riconosciuto lo straining nei confronti dell’impiegata di una farmacia: condannato il titolare al risarcimento del danno da stress.

Sommario

  1. Farmacista demansionata a banconista: il caso
  2. La decisione del giudice sullo straining alla farmacista
  3. Gli elementi identificativi del mobbing
  4. La figura dello straining
  5. La differenza fra mobbing e straining
  6. L’obbligo del magistrato
  7. La decisione del giudice: farmacista demansionata è vittima di straining

Con la recente sentenza n. 2306/2024, il Tribunale di Napoli ha riconosciuto, in favore di una dipendente farmacista, il risarcimento del danno per aver subito straining lavorativo da parte del titolare della farmacia, da cui è conseguito un disturbo post-traumatico da stress con ripercussioni invalidanti.

Sono state così valorizzate le prove testimoniali raccolte nel corso del processo che, pur non integrando la dimostrazione del mobbing per l’assenza dell’unificante intento persecutorio, sono state comunque positivamente apprezzate per giungere alla condanna del datore per aver violato l’obbligo specifico (sancito dall’art. 2087 c.c.) di tutelare l'integrità fisica e psichica e la personalità morale del lavoratore.

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Farmacista demansionata a banconista: il caso

La questione giudiziale prende le mosse dalla domanda di una lavoratrice che, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, inquadrata nel 1° livello del C.C.N.L. settore Farmacie Municipalizzate, con la qualifica di “impiegata” e la mansione di “farmacista”, si era dimessa per giusta causa per poi reclamare, da un canto, il pagamento di diverse somme a titolo di differenze retributive non liquidate, dell’indennità di preavviso e della quota del TFR, e dall’altro il risarcimento dei danni biologici, morali e professionali sofferti a causa delle plurime condotte vessatorie cui era stata sottoposta dal datore di lavoro.

Nello specifico, venivano denunciate dalla ricorrente una serie di richieste di svolgimento di mansioni inferiori rispetto al proprio livello di inquadramento, quali ad esempio la pulizia dei locali e la gestione del magazzino, oltre a sentirsi rivolgere continue espressioni offensive, anche in presenza di clienti, e dover sopportare ulteriori episodi di prevaricazione datoriale.

La decisione del giudice sullo straining alla farmacista

Tralasciando gli altri aspetti retributivi della controversia per occuparsi, più specificatamente, della questione relativa alle denunciate violazioni dei precetti imposti dall’art. 2087 c.c. alla parte datoriale, da cui la richiesta di risarcimento dei danni patiti a seguito della condotta di mobbing o straining attuata da quest’ultimo nei suoi confronti, il giudice ha dapprima individuato il perimetro specifico della figura più grave, individuandone i requisiti specifici.

Gli elementi identificativi del mobbing

Come costantemente osservato dalla Corte di Cassazione, gli aspetti costitutivi del mobbing vengono in genere identificati:

  1. in una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, uniti dall’unico intento vessatorio, siano realizzati dal datore di lavoro, dai suoi preposti o da altri dipendenti, nei confronti della vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo;
  2. nella verificazione di un evento pregiudizievole della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. nell’esistenza di un nesso causale tra le condotte vessatorie ed il danno occorso alla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; 
  4. nell’individuazione dell'elemento soggettivo, ossia dell'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi posti in essere contro la vittima. 
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La figura dello straining

Come si evince della descrizione che precede, la prova dei requisiti del mobbing, chiaramente a carico della vittima, non è spesso agevole, soprattutto nella parte in cui occorre dimostrare l’intento persecutorio che colora, di sé, tutte le varie condotte vessatorie provenienti dalla parte datoriale.

Motivo per cui, non volendo lasciare senza tutela queste condotte solo per l’assenza di questa prova, la giurisprudenza ha via via individuato una figura giuridica residuale di modo che sia possibile, in ogni caso, giungere all’affermazione della responsabilità datoriale nelle ipotesi in cui risultino dimostrati i requisiti del cd. straining, ovverossia quando emergano circostanze tali da generare un ambiente lavorativo altamente stressogeno, che generino nel dipendente un peggioramento, costante e permanente, della sua integrità psicofisica.

La stessa giurisprudenza di legittimità, peraltro richiamata dal magistrato nella decisione (nel caso di specie, Cass. n. 16580/2022), dettaglia specificatamente la linea di confine fra mobbing lavorativo e straining, rinvenendo il primo tutte le volte in cui “ricorrano una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento”, mentre il secondo è individuato “quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie".

La differenza fra mobbing e straining

Anche di recente, la Corte di Cassazione ha confermato tali principi. In breve nel mobbing si prescinde dalla liceità od illiceità proprie dei comportamenti datoriali, essendo qualificato dalla ricorrenza dell'elemento intenzionale, mentre lo straining riguarda, più che altro, l'obbligo del datore di lavoro di garantire, anche ai sensi dell'art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione e che, dunque, potrebbe non escludere l'inadempimento - anche a titolo di colpa - se il lavoro si manifesti in sé nocivo perché gravemente stressogeno.

Nello straining non è quindi necessario rintracciare nella fattispecie condotte vessatorie sistematiche e continuate, essendo sufficienti comportamenti vessatori che, pur saltuari, provocano nel dipendente uno stato di disagio grave.

L’obbligo del magistrato

Occorre altresì ricordare che per il solo fatto di non rinvenire i requisiti identificativi del mobbing il magistrato, che si trovi a valutare i fatti allegati e dimostrati dal lavoratore, non è esonerato dall’onere di verificare se gli stessi episodi possano prefigurare l’esistenza del minor danno derivante da azioni ostili che, seppur limitate nel tempo, sono state tali da provocare nel lavoratore una modificazione in negativo – costante e permanente - della situazione lavorativa, idonea a pregiudicare il diritto alla salute.

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La decisione del giudice: farmacista demansionata è vittima di straining

Raccolte tutte le prove rese disponibili dalle parti, soprattutto con riferimento alle testimonianze escusse nel corso dell’istruttoria, il Giudice ha quindi ritenuto, conformemente all’onere a sé spettante, dimostrata la ricorrenza di condotte datoriali che, seppur non costituenti mobbing per l’assenza dell’intento persecutorio unificante, configuravano una situazione di straining, invero esistente anche con un’unica azione dotata di gravità tale da generare frustrazione personale o professionale nel dipendente.

Sono emerse – a giudizio del magistrato – espressioni sgradevoli con cui il datore si sarebbe rivolto alla dipendente farmacista, nonché altri atteggiamenti denigratori che, esondando dai confini propri di un rispettoso e congruo rapporto di lavoro, sono sfociati nella violazione dell’’art. 2087 c.c., integrando la fattispecie dello straining, con conseguente risarcibilità dei danni patiti dall’impiegata alla personale integrità psicofisica

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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