Giornata internazionale dell’infermiere. Prospettive e criticità di una professione imprescindibile all’interno del Ssn

Il 12 maggio è la Giornata internazionale dell’infermiere. Carenze d’organico, aggressioni, turni massacranti e burnout rendono la professione meno attraente d’un tempo, tant’è che nei prossimi 10 anni il Ssn perderà 100mila professionisti. Il punto della situazione.

Sommario

  1. La Giornata internazionale dell’infermiere. Perché il 12 maggio?
  2. “Rendere attrattiva la professione infermieristica”
  3. Oltre le carenze, il burnout
  4. Aggressioni: sono circa 130mila l’anno. Più colpite le donne
  5. Case di comunità e Infermiere di famiglia. Cosa prevede il PNRR

Nel giro di una decina d’anni circa 100mila infermieri lasceranno il Servizio sanitario nazionale. Il problema è che questi professionisti non verranno sostituiti, se non in parte, e saremo costretti, se nulla nel frattempo sarà cambiato, a importare personale dall’estero, molto spesso dotato di una formazione non adeguata ai nostri standard. È la previsione della presidente della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche, Barbara Mangiacavalli.

Questa riflessione è stata fatta nel corso dell’evento “L’economia della sanità, l’economia per la salute’, organizzato dall’Health & Science Bridge del Centro Studi Americani”, avvenuto a ridosso del giorno in cui si celebra la Giornata internazionale dell’infermiere, ovvero il 12 maggio. Un momento utile, e anzi auspicabile, per riflettere sullo stato delle cose, ciò che ancora c’è da fare (anche alla luce dei fondi PNRR) e le problematiche da superare per non danneggiare il Ssn e, di conseguenza, i suoi pazienti.

La Giornata internazionale dell’infermiere. Perché il 12 maggio?

Il giorno prescelto affinché la professione infermieristica “parli un po’ di sé” al resto della popolazione è il 12 maggio. Perché proprio questo giorno? Perché Florence Nightingale, considerata unanimemente la fondatrice delle scienze infermieristiche moderne, nacque proprio il 12 maggio 1820.

Lo slogan scelto dalla Federazione per questa edizione è: “Il talento degli infermieri – Arte e Scienza in evoluzione”. Il perché di questa scelta deriva dall’attenzione riservata alla professione dai promotori di “Bergamo e Brescia capitali della cultura 2023”. Questi, insieme agli Ordini professioni infermieristiche locali, tra il 12 e il 14 maggio proporranno una serie di eventi culturali per dar vita a una seria riflessione su tutti i temi che stanno più a cuore agli infermieri. “Un’operazione – ha spiegato la Federazione – che ben si salda con gli sforzi compiuti dalla Fnopi per promuovere il valore culturale e scientifico della Professione, a tutti i livelli”.

“Rendere attrattiva la professione infermieristica”

E dunque, 100 mila infermieri verranno meno nel giro di 8, massimo 10 anni. “A oggi – ha spiegato Mangiacavalli – non abbiamo la concreta possibilità di immettere un numero così alto di professionisti. Considerato che ogni anno si laureano 10-12mila infermieri, immetteremo personale per coprire il turnover fisiologico”. Ciò significa che saremo costretti a importare professionisti: “Se non ragioniamo sull’attrattività siamo destinati a reclutare personale infermieristico dall’estero”. E questo, sottolinea Mangiacavalli, “potrebbe non essere un male”, ma diventa un problema quando “questi colleghi non arrivano da Paesi che hanno una formazione infermieristica simile a quella italiana”, la quale è una formazione di “altissimo livello”. Insomma, il paradosso è che formiamo in Italia ottimi professionisti che mandiamo all’estero mentre, per tappare i buchi, reclutiamo “con modalità da rivedere e da presidiare meglio” persone che, anche se sono abilitate all’esercizio della professione nel loro Paese, “in Italia potrebbero forse essere di supporto agli infermieri”.

Oltre le carenze, il burnout

Altra questione sul tavolo è lo stress a cui è sottoposta la categoria, ma questo è un problema condiviso anche con il resto dei professionisti sanitari. Le carenze strutturali in termini di personale, le quali sono alla base di turni di lavoro massacranti, ore di straordinario regalate all’azienda e, non da ultimo, la continua esposizione a possibili aggressioni (non solo verbali ma anche fisiche) determinano una qualità di vita lavorativa ben al di sotto dell’accettabile. Secondo una survey condotta dalla Federazione dei medici internisti ospedalieri (Fadoi) presentata di recente, soffrono di sindrome da burnout circa il 52% dei camici bianchi e il 45% degli infermieri che lavorano nei reparti ospedalieri di medicina interna (i quali, da soli, recepiscono un quinto di tutti i ricoveri che vengono effettuati nel nostro Paese).

La sindrome da stress lavoro-correlato, che porta il professionista all’esaurimento fisico e mentale, non è soltanto un problema del singolo o, al massimo, della categoria, ma riguarda anche la salute dei pazienti: professionisti stanchi e debilitati sono più soggetti a commettere errori durante l’esercizio della loro attività. Cosa che, ovviamente, incide sulla salute dei pazienti, sul rapporto sanitario-cittadino e aumenta le spese relative alla medicina difensiva e ai risarcimenti nei confronti di chi viene danneggiato.

Aggressioni: sono circa 130mila l’anno. Più colpite le donne

Per quanto riguarda il problema delle aggressioni, l’Organizzazione mondiale della sanità ha segnalato che gli operatori sanitari che hanno subito violenza nel corso della loro carriera sono tra l’8 e il 38%. Parliamo qui solo di violenze fisiche, e non verbali, talmente frequenti da risultare quasi impossibile contarle. Secondo l’OMS, inoltre, chi corre i maggiori rischi sono, per l’appunto, gli infermieri, oltre chiunque lavori nei reparti di pronto soccorso.

Secondo gli ultimi dati forniti dalla Fnopi, le aggressioni (siano esse fisiche o verbali) colpiscono in un anno, in media, un terzo degli infermieri. Parliamo dunque di circa 130mila casi ai quali va aggiunto un sommerso non denunciato di 125mila casi ogni anno. Il 75% di queste aggressioni riguarda le donne.

Questa situazione comporta anche danni economici per l’intero sistema. Secondo lo studio Cease-it, promosso proprio dalla Federazione e che ha visto la partecipazione di 8 università italiane, il 32% degli infermieri riferisce di esser stato vittima di un episodio di violenza (con una media annuale di 15 episodi per professionista). Il 4,3% si è dovuto assentare dal lavoro proprio a causa dell’aggressione. Ciò significa che, se un’assenza di almeno tre giorni vale intorno ai 600 euro, moltiplicando la cifra per il numero di infermieri coinvolti il totale ammonta a più di 11 milioni di euro. Nel caso in cui l’assenza raggiunga i 7 giorni, il costo per ogni evento arriva a 1.800 euro. Motivo per cui i costi totali a carico del sistema sanitario causati da episodi di violenza sugli infermieri ammontano a oltre 34 milioni di euro all’anno.

Insomma, tra carenze professionali, stress da lavoro e aggressioni, la situazione è tutt’altro che rosea. Ed è anche per far fronte a uno status quo che persiste ormai da decenni (e non fa altro che peggiorare), che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) sono state previste risorse per lo sviluppo delle Case di comunità e per la diffusione dell’Infermiere di famiglia.

Case di comunità e Infermiere di famiglia. Cosa prevede il PNRR

Al fine di diminuire le degenze inutili in ospedale (in caso di pazienti che potrebbero essere assistiti anche da casa) e gli accessi evitabili ai Pronto soccorso (eventualità che diminuirebbe e di molto la pressione sugli infermieri e, in generale, sui professionisti sanitari) la Missione 6 del PNRR propone una riforma che vuole “potenziare la capacità di prevenzione e cura del sistema sanitario nazionale a beneficio di tutti i cittadini, garantendo un accesso equo e capillare alle cure e promuovere l’utilizzo di tecnologie innovative nella medicina”. Per fare ciò si punta al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali (come, ad esempio, Ospedali e Case di comunità), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare e lo sviluppo della telemedicina.

Tra i vari punti previsti c’è anche quello relativo all’Infermiere di famiglia e comunità. Si tratta della “figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica, ai diversi livelli di complessità, in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità in cui opera. Non solo si occupa delle cure assistenziali verso i pazienti, ma interagisce con tutti gli attori e le risorse presenti nella comunità per rispondere a nuovi bisogni attuali o potenziali”.

Introdotto a livello europeo nel 1998 e “arrivato” in Italia con la legge n.77 del 17 luglio 2020, l’Infermiere di famiglia e comunità, se messo in condizione di fare il suo lavoro e correttamente utilizzato all’interno della rete assistenziale, può rappresentare un grande supporto alle famiglie nel trovare le corrette soluzioni ai loro bisogni di salute.

Di: Arnaldo Iodice

Argomenti correlati

News e approfondimenti che potrebbero interessarti

Vedi i contenuti

La soluzione digitale per i Professionisti Sanitari

Consulcesi Club

Contatti

Via G.Motta 6, Balerna CH
PEC: consulcesisa@legalmail.it

Social media