Dal cuore al cervello: come la mente influenza la salute cardiaca

In questo contributo a firma la prof. Gori illustra ed esamina la letteratura scientifica che conferma un legame tra psiche e salute del cuore. Si elaborano anche le terapie e i primi risultati

Sommario

  1. Maria Cristina Gori è inoltre responsabile scientifica del corso di formazione ECM “Cuore e psiche: come la mente influisce sulla salute cardiaca“, presente sulla piattaforma Consulcesi Club.
  2. La sickness behavior depression
  3. La ricerca scientifica sulla relazione stress-cardiopatia
  4. Il distress management
  5. Conclusioni

Contributo a cura di Maria Cristina Gori

Maria Cristina Gori, laureata in Medicina e Chirurgia, in Psicologia, Scienze dell’Educazione, Scienze Sociali per la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli, specializzata in Neurologia, in Psicoterapia. Docente in Riabilitazione presso il CdL in Fisioterapia all’Università La Sapienza. Attualmente Medico di Emergenza Territoriale ed Ospedaliera.

Autrice di diverse pubblicazioni scientifiche e di 4 libri:

– I miei occhi nei tuoi. Come la scoperta dei neuroni a specchio ha rivoluzionato la neurologia, la psicologia, la sociologia e le scienze dell’educazione, edizioni Kappa, 2014

– Il primissimo cervello somatopsichico, Giusti editore, 2016

– Limerenza, Pesi edizioni, 2022

– Anuptofobia, Paesi edizioni (in fase di pubblicazione)

Maria Cristina Gori è inoltre responsabile scientifica del corso di formazione ECM “Cuore e psiche: come la mente influisce sulla salute cardiaca“, presente sulla piattaforma Consulcesi Club.

È noto da tempo che i fattori psicosociali sono tra i più importanti per il rischio cardiovascolare. In realtà, il cuore non è affatto solo un organo autoregolatorio. Il meccanismo di autoregolazione si registra, infatti, solo in pochi casi. In realtà il cuore rappresenta a tutti gli effetti un sistema aperto. Fattori neuronali e umorali che intervengono dall’esterno rispetto a questo sistema di autoregolazione, il quale se funzionale preserva dall’ischemia, se disfunzionale la genera. Pertanto, entrano in gioco anche dei fattori psicologici o attraverso il sistema dello stress o attraverso il sistema umorale. Fattori che fra di loro comunicano e coincidono e che possono intervenire direttamente nel sistema stesso di generazione dell’ischemia o di protezione da essa.

In termini di sistemi complessi, i fattori di rischio o di predisposizione interagendo tra loro in modo diverso in ogni singolo paziente, generano dei sistemi disfunzionali di processo che arrivano ai determinanti finali dell’ischemia miocardica. Quando si verifica uno stress a livello cerebrale vi sono due vie che si attivano: una umorale attraverso il CRH (ormone di rilascio della corticotropina), e una attraverso l’ACTH (ormone adrenocorticotropo). Queste due vie, stimolando le ghiandole surrenali, producono catecolamine che agiscono sia a livello della circolazione che a livello del miocardio, ma anche glucocorticoidi che modulano i processi infiammatori come l’aterosclerosi.

La sickness behavior depression

Oltre a questo sistema discendente ne esiste anche uno ascendente. I processi infiammatori interferiscono da una parte con la coagulazione e anche con tutti i processi di eterogenesi (danno di placca, sindromi coronariche acute, etc). Ma i neuromediatori rilasciati dalle cellule infiammatorie vanno a interagire con i terminali sinaptici e, attraverso le vie ascendenti di connessione cardio cerebrale, sono comunicati al cervello. Il quale, con un narcoriflesso, attiva il sistema dello stress discendente che, collegato con la milza e i linfonodi, mobilizza delle altre cellule infiammatorie. Contemporaneamente, sempre il cervello rilascia altri neuromediatori che possono mediare i processi infiammatori locali. Questi stessi mediatori a livello circolatorio vengono captati nei processi venosi e provocano la sickness behavior depression, ossia quella sensazione di malessere che una persona prova quando è influenzata. A sua volta, questo tipo di depressione può influenzare di nuovo in un loop negativo la risposta allo stress. Lo stress è implicato in tutti i fattori che sono coinvolti nella cardiopatia ischemica. Nel modello classico di cardiopatia ischemica c’è al centro un processo, esclusivamente biologico, che si attiva secondo un sistema disfunzionale che provoca un mismatch tra bisogno di ossigeno e fornitura di ossigeno e, quindi, effetti biologici e manifestazioni cliniche.

In questo processo interferisce in modo pesante e attivo tutta una parte neuroumorale che è causata da fenomeni centrali come la cognizione, la personalità, i valori, gli stati emozionali e mentali che interagiscono tra di loro. A ciò si aggiunge la cognizione di un individuo di essere malato. Tutto ciò crea dei loop di varia natura, sia ascendenti che discendenti. Il nuovo modello della cardiopatia ischemica deve pertanto considerare la parte neurofisiologica con l’interazione cuore-cervello come un sistema unico in controllo reciproco. Il cervello gioca un ruolo cruciale nella fisiopatologia della cardiopatia ischemica: a livello di predisposizione, scatenante e di complicanze. Se vogliamo dunque gestire l processo che è alla base della cura della cardiopatia ischemica, e non solo i suoi sintomi, è necessario considerare l’aspetto neuro psicologico in ogni fase della patologia: dalla prevenzione alla cura, passando per la gestione delle complicanze e della fase acuta. Alcune metanalisi hanno dimostrato, come l’ansia sia significativamente associata all’insorgenza di malattie coronariche, così come è stato dimostrato il rapporto tra depressione e malattie coronariche e depressione e infarto del miocardio.

Rapporti così stretti che nelle linee guida ESC del 2016 sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari, è stato messo in evidenza come la gestione dei fattori psicosociali sia una parte fondamentale nella prevenzione di questi eventi e suggerito come modulare le varie tipologie di trattamenti medici e psicoterapici per riuscire a controllare questi fattori e ridurre così il rischio di malattie cardiovascolari. Nei pazienti con cardiopatia coronarica accertata, i trattamenti di salute mentale per la depressione (psicoterapia e/o farmaci) hanno un’efficacia moderata nel ridurre gli eventi cardiaci (NNT 34) e non riducono la mortalità totale. L’assistenza collaborativa è particolarmente efficace sui sintomi depressivi e parzialmente efficace sulla prognosi cardiaca. Inoltre, ci sono prove che la pressione arteriosa può effettivamente migliorare lo stato di depressione nei pazienti con cardiopatia coronarica.

Anche l’uso di farmaci psicotropi rischia di determinare un’aumentata propensione a sviluppare eventi cardiologici significativi.  Alla luce di ciò, il concetto di farmacoterapia può dunque essere esportato e adottato all’interno del mondo della cardiologia, in riferimento all’importanza di impedire in particolare l’uso di farmaci che sono stati inappropriatamente prescritti.  Pertanto, nei pazienti con disturbi psicologici e malattie cardiovascolari significative, un approccio de-prescrittivo per ridurre la politerapia inappropriata può rappresentare una strategia adeguata per ridurre il rischio di eventi avversi. Con un deprescribing ragionato è possibile virare su un processo decisionale più equilibrato che consente di individuare quali farmaci utilizzare per ogni singolo paziente, secondo un approccio non più basato soltanto sulle singole patologie e sulle linee guida generali da seguire, ma mirato a identificare nella sua complessità il paziente per cercare di ridurre al minimo il rischio di quelle drug interactions che possono rivelarsi decisive nel determinare un evento avverso.

La ricerca scientifica sulla relazione stress-cardiopatia

I primi studi qualitativi sulla relazione stress-cardiopatia ischemica risalgono agli anni Cinquanta. Successivamente, nel 1975, è stato pubblicato lo studio prospettico Western Collaborative Group Study. In questo studio i soggetti classificati come di tipo A hanno mostrato un aumento di due volte del rischio di coronaropatia e un aumento di 5 volte del rischio di infarto miocardico, nell’arco degli 8,5 anni di follow up.

Questo studio è poi stato ampiamente superato da studi epidemiologici successivi condotti su migliaia di pazienti che oggi ci permettono di affermare che i fattori di rischio psico-sociali sono equivalenti ai fattori di rischio biologici nella genesi della arterosclerosi e della patologia cardiovascolare. Sono invece più controversi i giudizi sui risultati degli interventi di tipo psicoterapico. Tutte le review sinora pubblicate. prendono in considerazione i primi studi psicoterapici pubblicati tra 1974 e 1979. In questi studi vengono analizzate le metodologie psicoterapeutiche utilizzate per gli interventi psicoterapici:

          Psicoterapia cognitivo-comportamentale: la più utilizzata

          Psicoterapia a indirizzo ontopsicologico

          Psicoanalisi: su cui si concentrano soprattutto studi qualitativi sulla caratteristica della personalità

          Psicoterapia interpersonale

Il Cochrane Database of Systematic Reviews del 2017 ha selezionato 35 studi randomizzati che comprendono 10.703 pazienti, giungendo alle stesse conclusioni: globalmente c’è una riduzione della mortalità anche se non è un dato definitivo; sicuramente, l’intervento psicoterapico riduce i sintomi dell’alterazione dell’umore, la depressione, l’ansia e lo stress, ma anche su questo versante c’è la necessità di ampliare gli studi e perfezionare l’aspetto metodologico.

L’articolo pubblicato sull’European Journal of Preventive Cardiology nel 2019, dal titolo “Additional effects of psychological interventions on subjective and objective outcomes compared with exercise-based cardiac rehabilitation alone in patients with cardiovascular disease: a systematic review and meta-analysis”, confronta pazienti sottoposti a sola terapia riabilitativa con pazienti sottoposti anche a intervento psicologico. In un follow up a cinque anni, i risultati sono contrastanti: il distress management è stato associato a una tendenza alla riduzione della morbilità cardiaca, quindi a eventi cardiovascolari, ma i dati non sono definitivi.

Nonostante queste controversie, già nel 2012 le linee guida europee raccomandavano un intervento psicoterapico in pazienti con alterazioni del tono dell’umore, depressione, ansia e ostilità, da associare alla terapia cardiologica. Anche nelle linee guida stilate in pazienti con angina, dispnea e patologia coronarica indicate dall’ESC nel 2019, è raccomandata la psicoterapia cognitivo comportamentale per aiutare i pazienti a modificare lo stile di vita. L’intervento psicologico è stato raccomandato anche in pazienti con sintomi depressivi.

Il distress management

Tutti gli studi sono concordi sull’importanza del distress management. Gli studi che hanno dato risultati più favorevoli sono quelli condotti su piccoli gruppi di pazienti da psicoterapeuti esperti. Il problema che riguarda tutti questi studi è l’eterogeneità dei pazienti arruolati. In pratica, nello stesso studio sono stati presi in considerazione e valutati sullo stesso piani pazienti che hanno avuto un infarto, angina, rivascolarizzazione per via percutanea, bypass. Ciò non ha permesso la dimostrazione dell’efficacia della psicoterapia in pazienti altamente selezionati, soprattutto alla luce delle moderne terapie cardiologiche sia mediche che interventistiche.

Uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sull’International Journal of Cardiology nel 2013 (One-year results of the randomized, controlled, short-term psychotherapy in acute myocardial infarction (STEP-IN-AMI) trial, Adriana Roncella, Christian Pristipino, Cinzia Cianfrocca, Silvia Scorza, Vincenzo Pasceri, Francesco Pelliccia, Johan Denollet, Susanne S Pedersen, Giulio Speciale), ha dimostrato una riduzione statisticamente significativa dell’end point primario – che era la somma di nuovi eventi cardiovascolari e di nuove patologie e nuove rivascolarizzazioni – in dei pazienti che hanno seguito il percorso psicoterapico. Per quanto riguarda gli eventi cardiovascolari, c’è stata una riduzione significativa dell’angina anche se questo dato non è risultato significativo. Si è registrata anche una riduzione significativa delle nuove patologie e una riduzione dei nuovi ricoveri sia per patologie cardiovascolari che per altre patologie. Nei pazienti con infarto acuto inferiore è stata segnalata una migliore classe funzionale: solo due pazienti nel percorso psicoterapico hanno avuto una classe funzionale 2 rispetto ai pazienti che non hanno seguito la psicoterapia. Per quel riguarda i dati psicometrici, si è registrata una riduzione dello score della depressione nei pazienti che hanno seguito la psicoterapia e, per quel che concerne lo score fisico, un miglioramento della qualità della vita.

In questo studio sono stati evidenziati globalmente al primo anno un miglioramento della prognosi, quindi una minore incidenza dell’end point primario, dell’angina e di nuove patologie, e anche un miglioramento di alcuni dati psicologici, quindi una riduzione del livello di depressione e un miglioramento della qualità della vita. Questa differenza si è mantenuta fino al quinto anno di follow up. Il principale problema metodologico di questo studio è rappresentato dal ristretto numero di pazienti arruolati e dal fatto che è stato condotto da un solo psicoterapeuta. Questo studio ha però avuto, tra gli altri, il merito di tornare a porre una questione di fondo: occorre formare degli psicoterapeuti in grado di mettere in atto questo metodo e poter così allargare il campo di questi studi e condurne altri randomizzati.

Conclusioni

In conclusione, è ormai documentato che esiste una relazione importante tra il cuore ed il cervello con un andamento bidirezionale. L’esperienza emotiva viene modulata, in alcuni momenti, dall’attività cardiaca. Molti lavori citati in questo testo hanno permesso di approfondire i meccanismi neurofisiologici alla base delle esperienze emotive coscienti traendo ispirazione dalle teorie formulate da William James e Carl Lange tra le fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sulla natura delle emozioni. Anche se le ipotesi sono falsificabili, è sopravvissuta ancora oggi una certa curiosità riguardo al ruolo che gioca il sistema nervoso periferico nell’elaborazione emotiva. Il sistema nervoso autonomo modula le risposte corporee non volontarie, come la sensazione di caldo o freddo, i brividi e la sudorazione, che regolano la nostra omeostasi interna, ma anche la contrazione dell’intestino, lo stimolo della vescica, il battito cardiaco, l’erezione; a sua volta l’attivazione cerebrale connessa alle emozioni è guidata dell’attività cardiaca in quanto espressione del sistema nervoso autonomo che non è direttamente controllato dalla nostra volontà.

Durante l’esperienza emotiva, l’interazione tra l’attività cerebrale e quella cardiaca è diretta, prevalentemente, dal cuore verso il cervello. Parallelamente è noto che quando nelle fasi “di riposo”, resting state, che rappresenta i periodi di pausa tra un’emozione e l’altra, allora il flusso si ribalta: in quei momenti è infatti il cervello che sembra guidare e influenzare l’attività cardiaca.

In sintesi, una parte dell’esperienza emotiva è guidata, o meglio, ritmata dall’attività cardiaca guidando l’attività cerebrale. L’approfondimento di tali studi, attraverso ulteriori ricerche sul campo, potrebbe inoltre facilitare la decodifica delle emozioni, ma anche la gestione psicoterapeutica delle emozioni. E non è escluso che in futuro l’attività psicoterapeutica possa mostrare definitivamente di essere in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari non solo agendo sui fattori dello stress ormai noti, ma anche con un meccanismo più diretto attraverso un flusso discendente che possa rimodulare l’attività cardiaca.

Di: Redazione Consulcesi Club

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