Una donna in stato di gravidanza si sente male e si reca in ospedale; purtroppo, la gravidanza ha delle complicazioni e la donna viene fatta partorire prematuramente. Nonostante le complicazioni, la donna riesce a dare alla luce la bambina, ed entrambe fortunatamente godono di ottima salute.
A distanza di qualche tempo una sera la donna, mentre guardava la televisione, si sintonizza su un canale locale e inizia a guardare un programma televisivo di intrattenimento; nel corso della trasmissione viene proiettato un servizio sull’ospedale in cui ha partorito la donna. Nel corso del servizio, con suo sommo stupore, la donna assiste alla proiezione in televisione del suo parto e della nascita di sua figlia; le scene, in particolare, sono state girate sia in sala parto che nei corridoi dell’ospedale, e riprendevano tutto il percorso sanitario della donna. Il video era stato montato in modo tale da oscurare il volto della donna e camuffarne la voce: la malcapitata, tuttavia, si è riconosciuta comunque in quelle scene estremamente intime carpite a sua insaputa, senza il suo consenso e contro la sua volontà.
La donna, sconvolta dalla vicenda, esperisce nei confronti della struttura ospedaliera e dell’emittente televisiva un’azione di risarcimento del danno per sé e per la figlia, lamentando di aver subito gravi ripercussioni sul piano del benessere psico-fisico e di aver subito, in sostanza, una vera e propria violenza, per essere stata ripresa contro la propria volontà durante un momento di sofferenza e di fortissima intimità.
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Durante il processo, l’ospedale si difende sostenendo che le riprese effettuate non rappresentavano alcun intralcio allo svolgimento delle prestazioni sanitarie, e che comunque le immagini erano state materialmente realizzate e pubblicate dall’emittente televisiva, scaricando su quest’ultima ogni responsabilità. Dal canto suo, l’emittente televisiva respingeva ogni accusa, sostenendo che le immagini pubblicate erano state riprese dalle telecamere collocate nei corridoi del reparto ospedaliero previa autorizzazione della direzione sanitaria; contestava, inoltre, ogni eventuale violazione della privacy della donna, poiché il suo volto e la sua voce erano stati resi irriconoscibili durante il montaggio del servizio. Un gioco al rimpallo delle responsabilità durato per l’intero processo.
La normativa di riferimento
La vicenda si è verificata anteriormente al 2018, prima dell’entrata in vigore del Regolamento Europeo Privacy (GDPR) e dell’abrogazione quasi totale del vecchio Codice Privacy italiano (d.lgs. n. 196/2003); al caso in esame, perciò, non si applica il GDPR, bensì il Codice privacy.
In virtù del vecchio Codice privacy, i dati personali, pena la loro inutilizzabilità, dovevano essere:
- trattati in modo lecito e secondo correttezza;
- raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, e utilizzati in altre operazioni di trattamento dati in termini compatibili con tali scopi;
- esatti e, se necessario, aggiornati, pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti e successivamente trattati;
- conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti o trattati.
A norma dell’articolo 22 del vecchio Codice privacy, i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dovevano essere conservati separatamente da altri dati personali trattati per finalità che non richiedono il loro specifico utilizzo; questi dati, anche quando erano tenuti in elenchi, registri o banche di dati senza l’ausilio di strumenti elettronici, dovevano essere resi temporaneamente inintelligibili anche a chi fosse autorizzato ad accedervi, tramite tecniche di cifratura che permettessero di identificare gli interessati solo in caso di necessità. In ogni caso, i dati idonei a rivelare lo stato di salute non potevano essere diffusi.
Il trattamento dei dati personali da parte di privati o enti pubblici non economici – quindi anche da parte di un ospedale – in virtù del vecchio art. 23 Codice privacy poteva avvenire solo previo consenso espresso dell’interessato, da esprimersi in maniera libera e specifica in riferimento ad un trattamento individuato in maniera chiara, previa informativa sulle modalità di utilizzo e trattamento dei dati; era obbligatorio il consenso scritto in caso di dati sensibili, tra i quali rientrano quelli inerenti la salute.
Le suddette norme oggi non sono più in vigore, essendo state abrogate e sostituite dai principi generali dettati dal GDPR in materia di protezione di dati personali, che impongono la liceità, correttezza e trasparenza dei dati, la limitazione delle finalità di trattamento, la minimizzazione dei dati, la loro esattezza e la limitazione della loro conservazione, la loro integrità e riservatezza e il principio di responsabilizzazione del titolare del trattamento dei dati personali.
Il GDPR non ha eliminato completamente il Codice privacy italiano, lasciando in vigore tutta la parte relativa alla tutela giurisdizionale: la procedura attuata dalla donna in seguito alla scoperta di essere stata ripresa senza il suo consenso in un momento intimo che rivelava il suo stato di salute, perciò, è la medesima di quella attualmente vigente.
Il soggetto titolare dei dati personali ha infatti il diritto di rivolgersi all’autorità giudiziaria, attraverso un ricorso, quando ritenga che la sua privacy e i suoi diritti siano stati violati in seguito al trattamento – potenzialmente illecito – dei suoi dati personali effettuato da un altro soggetto. Il processo si inizia con un ricorso da presentare, alternativamente, davanti al Tribunale del luogo in cui risiede o ha sede il titolare del trattamento dei dati ovvero davanti a quello di residenza dell’interessato; la sentenza che definisce questo tipo di giudizio non è appellabile. L’unico rimedio esperibile, pertanto, è l’eventuale ricorso per cassazione, qualora ricorrano i rigidi presupposti richiesti dalla legge: errore di fatto, errore di diritto, violazione di legge, mancanza di motivazione del provvedimento impugnato.
Riservatezza e dignità
Quando un paziente entra in ospedale per essere sottoposto a delle cure mediche, tra le parti sorge un vero e proprio contratto, in virtù del quale la struttura ospedaliera ha un obbligo di protezione nei confronti dei propri pazienti. Tra questi obblighi, vi è quello di proteggere il paziente da potenziali lesioni che possano provenire da terzi. L’avvenuta registrazione e pubblicazione del video del parto della donna, avvenuti entrambi senza il suo consenso, rientra nella violazione del generale obbligo di protezione che una struttura ospedaliera ha nei confronti dei suoi pazienti: la donna e la sua bambina avevano il diritto di essere protette e garantite dall’ospedale, che non doveva consentire la ripresa video delle loro particolari condizioni di salute di nascosto.
Diversa è, invece, la questione della responsabilità dell’emittente televisiva, in quanto tra la donna e l’emittente, infatti, non vi era alcun contratto, né scritto né verbale. Tuttavia, in Italia vige un principio generale, chiamato principio del “neminem laedere”, cioè “non offendere nessuno”, in virtù del quale tutti i cittadini hanno il dovere di non arrecare danno all’altrui sfera giuridica con i propri comportamenti; la violazione di questo dovere comporta per il colpevole l’obbligo del risarcimento del danno. L’emittente televisiva, mandando in onda delle videoriprese che ritraggono la donna mentre partorisce prematuramente la bambina, in condizioni di salute non stabili e senza il suo consenso, ha violato questo principio, arrecando danno alla riservatezza della donna e della sua bambina, oltre che alla loro dignità.
L’emittente televisiva non può nemmeno cercare di evitare di rispondere per il proprio comportamento invocando il diritto di cronaca e l’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico: l’emittente non ha fornito alcuna prova circa il fatto che la vicenda che ha riguardato la donna – un parto prematuro – fosse di interesse pubblico.
Come è andata a finire
L’ospedale e l’emittente televisiva sono stati condannati a risarcire il danno subito dalla donna e dalla sua bambina. Come già specificato sopra, la sentenza di primo grado, in virtù della normativa vigente in materia di procedimenti che riguardano la privacy, non è appellabile ma ricorribile direttamente in Cassazione. L’emittente televisiva ha chiesto la modifica della sentenza alla Corte di Cassazione, che però ha confermato il diritto della donna e di sua figlia ad essere risarciti sia dall’ospedale che dall’emittente, condannando entrambi al pagamento di un ulteriore importo a titolo di tassazione per il procedimento giudiziario avviato (il cosiddetto contributo unificato).