Nel corso dei precedenti episodi abbiamo analizzato la formazione da ogni aspetto possibile. Verificandone non solo l’ovvia importanza, ma anche il legame indissolubile con la professione sanitaria nel suo aspetto identitario. Dai libri universitari fino al corso di aggiornamento, c’è un lungo filo di continuità che porta il professionista della salute ad imparare sempre e comunque per garantire il miglior trattamento possibile ai propri pazienti.
Non si tratta di retorica e a testimoniarlo c’è l’interesse che la giurisprudenza ha dimostrato e continua a dimostrare per questo aspetto della professione in sede di giudizio. Stiamo parlando, nello specifico, dei contenziosi per responsabilità professionale. Uno degli aspetti più temuti della professione, su cui è sempre più evidente come mantenersi aggiornati possa costituire un forte elemento di tutela, in caso ci si trovi ad affrontare un procedimento. Ma spieghiamoci meglio.
Intorno alla responsabilità professionale si snodano due leggi fondamentali: le legge Balduzzi del 2012 e la legge 24 o legge Gelli-Bianco del 2017. La prima stabilisce che il professionista sanitario che, pur seguendo le linee guida e le buone pratiche mediche, abbia commesso un danno, non risponde penalmente se ha agito con colpa lieve. La seconda che ridefinisce la configurazione di colpa grave e prescrive ai professionisti il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche, richiedendone però adeguatezza al singolo caso concreto clinico-assistenziale.
In entrambe ricorrono linee guida e buone pratiche, che altro non sono che l’iter di cura e gestione del paziente prestabilito da una corretta e aggiornata formazione del singolo professionista. Ce ne ha dato una spiegazione chiara la professoressa Paola Frati, ordinario di Medicina Legale alla Sapienza di Roma.