Sembra trascorsa un’infinità di tempo ma dall’inizio del primo lockdown, voluto dall’allora governo Conte per contrastare la pandemia da Covid-19, sono passati “soltanto” tre anni. Ed esattamente due anni fa, ovvero il 17 marzo del 2021, è stata istituita la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da coronavirus che si celebra ogni 18 marzo. La data non è casuale ma è stata scelta per il forte valore simbolico di cui è intrisa: risalgono proprio al 18 marzo 2020 le immagini dei camion militari carichi di bare che percorrono le strade di Bergamo. Tre anni, dunque, in cui abbiamo imparato a conoscere e a convivere con un virus, il Sars-CoV-2, di cui letteralmente non sapevamo nulla, tanto s’è diffuso in maniera così rapida non solo nel nostro Paese ma in tutto il mondo.
L’importanza dell’aggiornamento continuo
Fondamentale, da questo punto di vista, si è dimostrata la tempestiva formazione degli operatori sanitari. In pochi mesi, se non addirittura settimane, hanno dovuto cambiare completamente il loro modo di approcciarsi ai pazienti e alle loro nuove esigenze. La nuova minaccia richiedeva l’immediata applicazione di nuove procedure e buone pratiche e i corsi da remoto hanno aiutato i professionisti ad affrontare al meglio le difficoltà nel corso degli ultimi tre anni.
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Anche grazie a ciò l’emergenza è stata gestita e circoscritta. Da diversi mesi non esistono più misure restrittive (ma di prudenza) per contrastare la diffusione del virus. Continuano invece, gli studi volti a capire se e in che modo l’avvenuto contagio può influire sulla salute del soggetto non solo nell’immediato ma anche con l’andare del tempo. Parliamo, dunque, di Long Covid. È infatti noto che può capitare, in seguito al contagio da Covid-19, che alcuni sintomi (come vertigini, mal di testa, difficoltà respiratorie, perdita di capelli, dolori muscolari, eccetera) possano persistere anche nei mesi successivi alla guarigione.
Una problematica non indifferente, tant’è che dagli Stati Uniti è partita una grossa mobilitazione sui social. Le vittime, provenienti da tutto il mondo si sono unite e hanno lanciato il Long Covid Awareness Day, una Giornata internazionale della consapevolezza sul Long Covid, che si celebra il 15 marzo.
La situazione a distanza di tre anni
Dall’inizio dell’emergenza il numero totale di contagi registrati nel mondo sfiora le 677 milioni di unità, mentre i decessi ammontano a quasi 7 milioni. Per quanto riguarda invece la situazione italiana, i contagi superano i 25 milioni e i morti le 180mila unità. Alla data della più recente indagine rapida per valutare la prevalenza delle varianti del virus, si scopre che la variante Omicron rappresenta la quasi totalità (99,97%) dei sequenziamenti. Il restante 0,03% è invece da attribuire ad un ricombinante Delta/Omicron. La sottovariante BA.5 risulta predominante (87,0%), con 138 differenti sotto-lignaggi identificati (incluso il lignaggio parentale). Tra questi, BQ.1.1 ha raggiunto una frequenza del 38,9%. Si continua infine ad osservare un incremento, sebbene moderato, nella proporzione di sequenziamenti attribuibili ai sotto-lignaggi CH.1.1 e XBB.1.5.
Long Covid: le nuove scoperte
Ed è proprio la variante in assoluto predominante, ovvero Omicron, ad essere al centro dei principali studi di questo periodo. Secondo uno studio svizzero condotto da Carol Strahm (Divisione Malattie infettive ed Epidemiologia ospedaliera dell’Ospedale cantonale di San Gallo) che sarà presentato al Congresso della Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive tra il 15 e il 18 aprile a Copenaghen, in Danimarca, soffrire di Long Covid è molto meno probabile dopo avere contratto un’infezione da variante Omicron piuttosto che successivamente al contagio da variante originale del Sars-CoV-2.
Gli autori dello studio hanno osservato che gli operatori sanitari infettati dalla prima versione del virus avevano una probabilità di sviluppare Long Covid maggiore fino al 67% rispetto ai non contagiati. Rischio che nel tempo scendeva al 37%. Tra gli infettati da virus wild, la probabilità di fatigue (stanchezza cronica) rispetto ai non contagiati era del 45% maggiore all’inizio, per poi calare fino a raggiungere una differenza non statisticamente significativa. Per quanto riguarda i guariti da Omicron, questi non mostravano un rischio aumentato né di Long Covid né di affaticamento rispetto ai non infettati. Reinfettarsi con Omicron dopo un precedente contagio da virus originale, inoltre, non comportava una probabilità maggiore di Long Covid, rispetto a una singola infezione da virus wild.
Carol Strahm ha dichiarato che “con Omicron ancora dominante a livello globale i nostri risultati dovrebbero rassicurare chi si sta infettando adesso per la prima volta, così come chi ha già contratto l’infezione da virus originale. Tuttavia – puntualizza Strahm – è importante notare che i partecipanti al nostro studio erano soprattutto donne sane, giovani e vaccinate. I risultati potrebbero dunque essere diversi in una popolazione più malata, anziana e/o non vaccinata”.