Non è necessario arrivare a provare che sussistano tutti gli elementi del “mobbing” perché un datore di lavoro possa essere considerato responsabile per il cattivo ambiente lavorativo, in cui i dipendenti si trovano a fornire la loro prestazione, ricevendone un pregiudizio alla loro salute.
È quello che dice (in realtà, conferma) la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, che torna nuovamente a pronunciarsi sul cd. “straining” e sugli obblighi che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro.
Con l’ordinanza n. 123 del 4/01/2025, il Supremo Consesso si allinea alle più recenti pronunce sul fenomeno dello “straining” e, in generale, sul tema dello stress sul luogo di lavoro (Cass. Civ., Sez. Lav., ord. 4664/2024; Cass. Civ., Sez. Lav., ord. 3822/2024; Cass. Civ., Sez. Lav., ord. 15957/2024), andando ad affermare la responsabilità del datore di lavoro, per non aver posto in essere misure adeguate a risolvere situazioni conflittuali tra i dipendenti, evitando che ciò possa generare danni alla salute a qualcuno di questi.
Non solo. La Corte approfondisce anche l’interessante tema della tutela dei lavoratori più sensibili a situazioni di stress: in questi casi gli obblighi di tutela, anziché diminuire per le difficoltà personali del soggetto, si acuiscono, richiedendosi al datore di lavoro un livello di attenzione ancora più alto a garanzia dei soggetti particolarmente fragili.
Il fenomeno dello “straining”
La figura dello “straining” non ha una propria definizione normativa, ma è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale In relazione a quelle condotte che, pur non potendo essere qualificate come “mobbing”, mostrano comunque profili di illiceità e sufficiente rilevanza in termini di effetti pregiudizievoli sulla salute umana.
Perché si concretizzi un caso di “mobbing”, infatti, è necessaria la contestuale presenza dei seguenti presupposti:
- la molteplicità di comportamenti persecutori, illeciti ma anche leciti, realizzati in modo sistematico e prolungato nel tempo contro il dipendente, con intento vessatorio;
- il danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, alla sua personalità o alla sua dignità;
- il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e il danno patito dal dipendente;
- la prova dell’intento persecutorio, elemento soggettivo della condotta illecita.
Tuttavia, stante la difficoltà di dimostrare l’intento persecutorio, le domande di risarcimento per “mobbing” rischiano talvolta di non giungere all’auspicato accoglimento, generandosi un vuoto di tutela per tutte quelle situazioni in cui la condotta illegittima esiste ed anche il danno per il dipendente.
Per tale ragione, la giurisprudenza ha plasmato la figura dello “straining”, in cui confluiscono tutte quelle condotte datoriali che, pur senza che vi sia continuità ed un disegno persecutorio, provocano comunque un pregiudizio al lavoratore.
La normativa di riferimento
Queste situazioni possono trovare tutela nell’art. 2087 c.c., che prevede “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Il datore di lavoro è, quindi, obbligato ad adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi intrinseci all’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni ma comunque inerenti al luogo stesso.
Tale previsione è posta a garanzia dell’integrità psico-fisica e della personalità morale del dipendente e riconosce, pertanto, una responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in capo al datore di lavoro, con conseguente diritto del lavoratore di attivare azioni a tutela dei suoi diritti qualora le condotte violino i predetti doveri datoriali in materia di salute e sicurezza.
Il danno da straining e la sentenza
La sentenza in esame riguarda il caso di una avvocatessa impiegata presso l’ASL di Bolzano, che ha denunciato le condotte stressogene del proprio direttore generale, convenendolo in giudizio per “mobbing”.
Nello specifico, il responsabile dell’azienda sanitaria aveva manifestato, molti anni prima, l’intenzione di attuare una riorganizzazione della sede amministrativa dell’ente, che avrebbe comportato la soppressione dell’ufficio legale, nonché la trasformazione in avvocatura non dirigenziale in staff a diretto riporto della direzione generale.
Questi cambiamenti avevano determinato un clima di forte conflittualità degenerato – secondo quanto si legge - in controversie sfociate anche in denunce a carattere penale, ripetute richieste di invio di una grande mole di documenti, mail con epiteti poco cordiali, azioni di disturbo dell’attività lavorativa.
In primo e secondo grado, i giudici avevano evidenziato subito che la scelta organizzativa dell’ASL non poteva qualificarsi come irragionevole ma, anzi, era stata motivata non soltanto da questioni di natura finanziaria, ma anche dall’intento di sopprimere l’Ufficio legale.
Tuttavia, la situazione di conflitto tra i due avrebbe dovuto essere gestita meglio dall’Azienda, chiamata a ripristinare la serenità necessaria perché le ordinarie attività lavorative proseguissero senza problemi anche, qualora necessario, ricorrendo al potere disciplinare; al contrario, il direttore avrebbe tenuto una condotta provocatoria in replica a quella (altrettanto provocatoria) della dipendente, dando così il via ad un circolo vizioso pregiudizievole per la salute di quest’ultima.
La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, riconosceva così il danno da “straining” come forma attenuata di “mobbing”, mancando la pluralità di azioni vessatorie e il disegno persecutorio, con conseguente condanna dell’azienda al pagamento di oltre 12.000,00 euro a titolo di risarcimento del danno patito dalla dipendente, quale differenziale rispetto all’indennizzo Inail già ricevuto, oltre al rimborso delle spese di lite.
La decisione della Corte di Cassazione
Su ricorso dell’ASL e relativo controricorso del legale resistente, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione veniva quindi investita della questione, confermando integralmente quanto deciso in sede di merito.
Si legge nella motivazione dell’ordinanza n. 123/25 che, anche quando non sia configurabile una condotta mobbizzante, per l’insussistenza dell’intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, si può considerare comunque ipotizzabile la violazione dell'art. 2087 c.c., laddove lo stesso datore di lavoro abbia contribuito a mantenere, per negligenza, un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero abbia realizzato comportamenti, magari non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi.
Inoltre, a nulla rileva il fatto che la lavoratrice reagiva in modo eccessivo a situazioni di stress: l’art. 2087 c.c. è posto a tutela di tutti i lavoratori, anche e soprattutto di quelli più fragili, in relazione ai quali gli obblighi di protezione datoriali si accentuano e non si attenuano.
In buona sostanza, il datore di lavoro deve esercitare un impegno ed un’attenzione ancora maggiori nelle situazioni in cui risultano coinvolti dipendenti, dotati di una maggiore fragilità emotiva.
la Cassazione ha quindi confermato la condanna dell'amministrazione, ritenuta responsabile del c.d. straining per comportamenti stressogeni posti in essere dalla direzione generale nei confronti della dipendente, ancorchè in assenza di una molteplicità di azioni vessatorie.