Liste d’attesa, a che punto siamo? Quici (CIMO): “Situazione continua a peggiorare”

Quali sono le cause delle liste d’attesa, e cosa si può fare per ovviare a un problema ormai strutturale del nostro Servizio sanitario nazionale? Intervista a Guido Quici, presidente CIMO.

Sommario

  1. Tagli e carenza di personale: il cuore del problema
  2. Le difficoltà nel gestire le liste d’attesa
  3. La libera professione: causa o effetto?
  4. Servono riforme strutturali

Le liste d’attesa per visite specialistiche e interventi chirurgici rappresentano una delle maggiori criticità del Servizio sanitario nazionale. Secondo un’indagine di Altroconsumo, il 72% dei pazienti non riesce a ottenere una visita nei tempi previsti. Il problema, aggravatosi dopo la pandemia da Covid, deriva da una combinazione di tagli strutturali, carenza di personale e inefficienze organizzative. Guido Quici, presidente di CIMO, ha analizzato le cause e le possibili soluzioni.

Tagli e carenza di personale: il cuore del problema

“La situazione tende a peggiorare”, afferma Quici, sottolineando che tra il 2010 e il 2020 il numero di prestazioni ambulatoriali si è ridotto di circa 78 milioni, i ricoveri di 2,5 milioni e i posti letto di 38.500 unità. Dopo il Covid, il quadro è ulteriormente peggiorato.

Uno dei principali problemi è l’incapacità di intercettare i reali bisogni di salute dei cittadini. Inoltre, molte prescrizioni derivano dalla cosiddetta “medicina difensiva: i medici tendono a prescrivere più esami del necessario per evitare problemi legali. A questo si aggiunge la carenza cronica di medici e infermieri, conseguenza del blocco della spesa sul personale sanitario in vigore da oltre vent’anni. Abbiamo le tecnologie grazie ai fondi del PNRR, ma mancano le persone che le fanno funzionare – osserva Quici –. La mancanza di personale incide anche sull’apertura degli ambulatori: reparti come la cardiologia necessitano di almeno 15 specialisti per garantire turni h24, ma spesso ne hanno meno della metà”.

Le difficoltà nel gestire le liste d’attesa

Il governo ha emanato un decreto per ridurre i tempi di attesa, ma Quici esprime alcune perplessità. “Se un paziente prenota una visita tra un anno e nel frattempo si cura privatamente, continua comunque a occupare un posto in lista. Questo è un aspetto su cui il decreto interviene positivamente”, afferma. Tuttavia, restano criticità legate ai Cup regionali, soprattutto al Sud, dove gli spostamenti tra città possono risultare complessi, in particolare per gli anziani.

A ciò si aggiunge la necessità di controllare meglio le aziende sanitarie. “Se non vengono messe in condizione di operare con risorse adeguate, non possiamo aspettarci risultati concreti”. Secondo Quici, manca un investimento strutturale per potenziare l’offerta sanitaria pubblica, soprattutto per la gestione dei pazienti cronici, i cui bisogni aumentano di anno in anno. I tagli degli ultimi 10-15 anni hanno reso il recupero molto difficile.

La libera professione: causa o effetto?

Un’altra questione dibattuta riguarda la libera professione dei medici. Molti pazienti lamentano tempi d’attesa lunghissimi nel pubblico, mentre privatamente possono ottenere una visita in pochi giorni. “Se un ambulatorio ospedaliero è aperto solo un giorno a settimana, è normale che le liste d’attesa si allunghino”, spiega Quici. Dopo aver completato le 38 ore settimanali, un medico può lavorare privatamente, e quindi offrire appuntamenti immediati.

Va considerato, però, che i guadagni dalla libera professione non sono elevati: “Su 100 euro di onorario, il medico ne incassa solo 32, il resto va in tasse e trattenute per l’azienda sanitaria”. Alcune regioni hanno provato a limitare la libera professione, ma secondo Quici il problema non sta lì. Piuttosto, servirebbe un’integrazione con il pubblico, ad esempio destinando i fondi sanitari integrativi al sistema nazionale, invece che alle cliniche private.

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Servono riforme strutturali

Per risolvere il problema delle liste d’attesa, non bastano misure isolate. Secondo Quici, “spesso si interviene solo sugli aspetti marginali, senza affrontare le criticità strutturali”. Occorrono investimenti nel personale, una migliore gestione delle risorse e un coordinamento più efficace tra ospedali e territorio. “Senza riforme coraggiose e una volontà politica chiara, la situazione non cambierà mai”, conclude il presidente di CIMO.

Di: Arnaldo Iodice, giornalista

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