La vicenda giudiziaria, conclusasi recentemente con la sentenza n. 1099/2024 del Tribunale Civile di Viterbo, trae origine dalla richiesta risarcitoria presentata dagli eredi di una persona che, a causa di un improvviso malessere, dovette rivolgersi, su chiamata della sua convivente, alle cure del personale medico ed infermieristico del 118, che giunto in loco non avrebbe praticato alcuna manovra rianimatoria riducendo, in modo significativo, le chance di sopravvivenza del paziente, deceduto poco dopo.
Responsabilità professionale: quando il fatto non sussiste
L’esito del concluso procedimento penale era stato di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, non ritenendosi dimostrata l’effettiva sussistenza, nel caso concreto, di un valido collegamento causale fra l’omessa condotta e la morte, secondo il criterio di alto grado di credibilità razionale e cioè di elevata credibilità logica o di probabilità logica prossima alla certezza richiesto dalla giurisprudenza.
La Cassazione, in ultima istanza, aveva infatti concluso, sulla scorta del giudizio controfattuale praticato, per l'impossibilità di ascrivere alla condotta dei sanitari l'evento infausto poiché, pur ipotizzando come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa, il decesso avrebbe comunque avuto luogo con elevato grado di credibilità razionale.
Difatti, la mancata esecuzione della manovra rianimatoria avrebbe inciso sulla possibilità di sopravvivenza del paziente in una misura percentuale tra il 2% e l'11%, ovvero del 23% in caso di emersione di ritmo defibrillabile.
Tutto questo non è stato, quindi, ritenuto sufficiente per considerare rigorosamente dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale fra la morte e la condotta sanitaria, secondo i principi dettati sul punto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, con conseguente pronuncia di assoluzione.
Il ricorso della famiglia del deceduto
Malgrado l’esito sfavorevole raccolto nel processo penale, gli eredi del paziente deceduto adivano comunque la magistratura civile, ritenendo la decisione non preclusiva dell’azione risarcitoria, atteso il diverso criterio di valutazione del nesso causale adoperato in questa sede.
Si assumeva infatti che la valutazione della colpa e del nesso causale nel processo penale deve raggiungere la soglia del convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel giudizio risarcitorio lo stesso accertamento risponde alla regola del “più probabile che non”.
Per questi motivi, il giudice civile può quindi procedere alla rivalutazione delle medesime circostanze, già esaminate dal magistrato penale e ritenute insufficienti per sostenere la pronuncia di condanna, per individuare, secondo un differente parametro, l’eventuale sussistenza degli stessi requisiti necessari all’accoglimento della pretesa risarcitoria.
Leggi anche
L’importanza del nesso causale e le chances di sopravvivenza
Il magistrato civile, pur seguendo il ragionamento proposto dalla parte attrice, ha comunque disatteso la tesi dell’affermato nesso causale, ritenendolo insussistente anche secondo il criterio del “più probabile che non”.
La decisione avrebbe potuto essere diversa qualora la condotta colposamente omessa avesse comportato, con una probabilità maggiore rispetto a quella contraria, la sopravvivenza del paziente, evitandone così la morte.
In altri termini – secondo il Tribunale - l'accertamento del nesso eziologico tra la condotta e l'evento secondo il criterio del “più probabile che non” impone di valutare le chances di sopravvivenza del paziente, nell'ipotesi di corretta esecuzione del trattamento terapeutico, in termini percentuali così da stabilire secondo criteri scientifico-statistici se l'evento sarebbe o meno stato evitato in presenza del comportamento omesso.
Tutto ciò per far sì che la causalità necessaria per sostenere un giudizio di responsabilità non venga ridotta ad una qualsiasi chance di sopravvivenza, ancorché minima o puramente astratta.
Secondo il criterio del “più probabile che non”, la chance assume rilevanza tutte le volte in cui incide sulla determinazione dell’evento, e non come autonoma posta attiva, suscettibile di risarcimento.
Riprendendo le conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici d’ufficio, il giudice ha quindi concluso ritenendo come non fosse stata raggiunta la percentuale idonea ad integrare il criterio del “più probabile che non”, atteso come la causa del decesso sia stata individuata in una malattia coronarica preesistente e mai precedentemente diagnosticata.
L’omessa manovra di rianimazione, anche se fosse stata tempestivamente praticava, avrebbe quindi potuto impedire l’evento letale soltanto con una probabilità fra il 10 ed il 20%, non ritenuta sufficiente a raggiungere la soglia necessaria all’individuazione del nesso causale con la condotta omissiva dei sanitari.