Il 28 luglio 2009 la signora B., già cesarizzata due volte, viene ricoverata presso l’ospedale Santo Bambino di Catania per partorire il suo terzogenito, il piccolo C., in quanto presentava algie pelviche.
Durante la notte tra il 28 e il 29 luglio 2009 la signora B. ad avere le contrazioni, che tuttavia cessano alle ore 22:45; la donna viene tenuta in osservazione per un’ora e mezza, fino alle 00:15, quanto constatata la sua buona condizione, dopo la somministrazione di un farmaco tocolitico, viene rimandata in reparto.
Dopo essere ritornata in reparto, la signora B., in seguito alla rottura della parete uterina, ha una grave emorragia con successiva lipotimia; il piccolo C. va in grave sofferenza ipossica e decede poco dopo essere nato.
La dottor A., medico di turno durante la notte tra il 28 e il 29 luglio 2009, viene iscritto nel registro degli indagati per il reato di omicidio colposo.
La normativa violata: le disposizioni del decreto Balduzzi
La vicenda che ha visto protagonista il dottor A. è stata vagliata dalla Procura e dai giudici secondo le disposizioni del vecchio decreto Balduzzi, ancora in vigore all’epoca della commissione del fatto e ritenuto più favorevole rispetto all’art. 590 sexies del codice penale che oggi conosciamo.
Ciò è stato possibile in virtù del principio generale, vigente nel nostro ordinamento giuridico, del cosiddetto favor rei, grazie al quale il reo ha diritto all’applicazione della normativa a lui più favorevole.
La condotta del dottor A., perciò, è stata valutata secondo l’art. 3 del vecchio decreto Balduzzi (oggi abrogato), secondo cui l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
Il dottor A. è stato accusato di aver cagionato la morte del piccolo C. in quanto avrebbe omesso di valutare correttamente i segni clinici e lo stato della signora A., paziente con peculiari problematiche già al momento del suo ingresso in ospedale, e avrebbe inoltre omesso di disporre e di eseguire in maniera costante il controllo cardiotocografico e il monitoraggio della ripresa del travaglio e dei suoi effetti sulla pregressa cicatrice isterotomica.
Al caso di specie si applicano le linee guida del 2012, secondo cui alla signora B. – paziente bicesarizzata con la tesata del nascituro non impegnata, senza dilatazione, che spinge sulla cicatrice – doveva essere garantita un’adeguata sorveglianza clinica e un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio e nella fase di prodromi da travaglio, che erano tutti presenti nel caso di specie.
Vero è che le linee guida non prevedevano la predisposizione del monitoraggio continuo: tuttavia, le buone pratiche imponevano, nello specifico contesto, il continuo monitoraggio fetale, a causa dei molteplici fattori di rischio che, nel contesto specifico, propendevano per la probabile rottura dell’utero.
Se il dottor A. avesse posto in essere il monitoraggio fetale continuo non avrebbe certo impedito la rottura dell’utero, ma sarebbero state messe in luce le alterazioni del tracciato cardiotocografico, sintomatiche della rottura dell’utero: così facendo, sarebbe potuto intervenire tempestivamente con un intervento chirurgico di taglio cesareo che avrebbe evitato gravi danni e che, con elevata probabilità, avrebbe altresì evitato la morte del feto, deceduto a seguito di una lunga sofferenza fetale, individuata dall’esame autoptico in tre/quattro ore.
Il dottore, perciò, si è reso colpevole di imperizia, ritenuta dai giudici non lieve ai fini dell’esclusione dell’art. 3 della legge Balduzzi, proprio perché lo stesso, pur essendosi attenuto alle linee guida (che non imponevano il continuo monitoraggio fetale nel caso di specie) non ha rispettato le buone pratiche clinico assistenziali.
La Cassazione, nel decidere il caso che ha visto protagonista il dottor A., ha precisato che le linee guida non hanno un carattere obbligatorio (precettivo) come quello che viene attribuito, invece, alle regole cautelari codificate, e ciò poiché hanno un più ampio margine di flessibilità: in pratica le linee guida devono orientare la condotta dell’operatore sanitario, fatte salve le specificità del caso.
La Cassazione ha precisato che il rispetto delle linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l’esonero della responsabilità penale del sanitario secondo i criteri fissati dal vecchio decreto Balduzzi, dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse, nel caso di specie, un percorso terapeutico rispetto a quello indicato dalle linee guida, in quanto queste non sono in grado di offrire standard legali precostituiti.
Le linee guida, in pratica, rappresentano delle regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della miglior cura per lo specifico caso del paziente, non hanno carattere cogente e non sono esaustive.
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La condanna del medico per grave imperizia
Il dottor A. è stato definitivamente condannato alla pena di cinque mesi di reclusione, per aver cagionato il decesso del piccolo nato C., in quanto non ha correttamente valutato i segni clinici e lo stato della partoriente signora B., già cesarizzata due volte e con algie pelviche, omettendo di predisporre ed eseguire costantemente il controllo cardiotocografico e il monitoraggio della ripresa del travaglio 2 dei suoi effetti sulla pregressa cicatrice isterotomia e con la mancata tempestivi 1 diagnosi di pericolo di rottura della parete uterina, rottura poi avvenuta con conseguente choc emorragico e lipotimia successiva, grave sofferenza ipossica a danno del nato, tale da determinarne il decesso.
Il dottor A. ha potuto beneficiare della sospensione condizionale della pena: in pratica, la pena della reclusione rimane sospesa per il termine di cinque anni, in quanto il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commetter ulteriori reati.
In futuro, tuttavia, il dott. A. non potrà più usufruire della sospensione condizionale della pena, poiché la sospensione non può essere concessa per più di una volta, salvo che l’eventuale nuova condanna sia inferiore ai due anni di reclusione (ovvero ad altri specifici parametri tecnici fissati dall’art. 163 c.p.p.).