Il signor A. è un infermiere in servizio presso l’ospedale di B., dove presta servizio presso il reparto di emergenza-urgenza. Il lavoro è duro e molto stressante, anche perché i superiori assumono spesso nei suoi confronti un comportamento vessatorio.
L’infermiere A., infatti, a causa dello stress derivante dalle continue vessazioni dei suoi superiori si sottopone a delle sedute terapeutiche da uno psichiatra e da uno psicologo, che raccolgono, nel corso delle visite, le sue “confidenze”. Nel corso di una seduta, in particolare, l’infermiere avrebbe detto ai suoi terapeuti di essere “mosso da uno stato di preoccupante distacco emotivo maturato nei confronti dei pazienti a causa del comportamento vessatorio dei superiori”.
Entrambi i terapeuti intuiscono qualcosa di torbido nei racconti dell’infermiere A., come se in ospedale fosse successo qualcosa a dei pazienti e quel qualcosa lo avesse provocato proprio l’infermiere: scatta così la segnalazione alla Procura della Repubblica da parte dei due medici.
Dalle indagini emerge un quadro inquietante: l’infermiere A. avrebbe ucciso le due anziane donne con dosi massicce di Diazepam e Midazolam, due sedativi molto potenti, normalmente usati per il trattamento dell’ansia e dell’insonnia o per la sedazione dei pazienti in fase pre-operatoria.
L’infermiere A. viene perciò indagato e, a chiusura indagini, rinviato a giudizio per avere ucciso le due donne. Nel processo si costituiscono parte civile, al fine di ottenere il risarcimento del danno, i parenti delle vittime, l’Azienda ospedaliera presso cui l’infermiere A. è impiegato e un’associazione di consumatori.
Le accuse all’infermiere e la normativa violata
L’infermiere A. è accusato di aver commesso uno dei più gravi delitti contro la persona: l’omicidio.
L’articolo 575 del codice penale punisce chi cagiona la morte di un uomo con la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno; tuttavia, se il reato è aggravato, la pena prevista è quella dell’ergastolo.
Costituisce aggravante dell’omicidio il cagionare la morte di un uomo con il mezzo di sostanze venefiche o con un altro mezzo insidioso: la somministrazione endovena di farmaci come il Diazepam e il Midazolam costituisce, pertanto, un’aggravante dell’omicidio, che se dimostrata può far applicare la pena dell’ergastolo a chi lo ha commesso.
Se l’infermiere A. dovesse essere condannato alla pena dell’ergastolo, tuttavia, non è detto che trascorra tutta la vita in galera: infatti, l’art. 22 del codice penale stabilisce che la pena dell’ergastolo è perpetua e viene scontata in uno degli istituti penitenziari a ciò destinati, con obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno, nonché con possibilità per l’ergastolano di essere ammesso al lavoro all’aperto.
Salvo che si tratti di ergastolo ostativo (il cosiddetto carcere a vita oppure “fine pena mai”), l’ergastolo comune consente al condannato, nell’ottica di una sua rieducazione, di usufruire dei benefici premiali previsti dalla legge:
- permessi premio dopo dieci anni di pena, se ritenuto non pericoloso,
- semilibertà dopo vent’anni di detenzione,
- liberazione condizionale dopo ventisei anni di detenzione, o ventuno se il detenuto ha tenuto una buona condotta.
Il signor A., pertanto, in caso di condanna potrà perciò usufruire di tutti i trattamenti premiali che abbiamo appena elencato: una magra consolazione per chi è stato danneggiato dal reato, soprattutto i parenti delle vittime assassinate, che – giustamente – non condividono gli sconti di pena, sul presupposto che per loro la sofferenza per aver perso un proprio caro è perpetua, a vita.
L’ordinamento giuridico consente al soggetto danneggiato dal reato, come appunto i parenti delle vittime di omicidio, di costituirsi parte civile nel processo penale, al fine di ottenere il risarcimento del danno patito a causa di quel reato: in pratica, la classica azione civile di risarcimento del danno viene trasferita nel processo penale.
Attenzione però: se il processo penale dovesse concludersi con un’assoluzione, il danneggiato che si è costituito parte civile non avrebbe più alcuno strumento per chiedere il ristoro dei danni all’omicida (pur assolto), poiché avrebbe esaurito l’azione in quel processo. Per questo motivo è bene rivolgersi a professionisti del settore, che valuteranno con attenzione la strada più opportuna da seguire per far ottenere ai danneggiati il ristoro del danno patito.
Nel caso dell’infermiere A., oltre ai parenti delle vittime, è stata danneggiata anche l’azienda ospedaliera presso cui il professionista presta servizio: il danno d’immagine è stato notevole, dato che basta googlare qualche parola chiave sul caso (infermiere killer) associata alla città o al nome dell’azienda ospedaliera, e subito compaiono centinaia di articoli riferiti alla vicenda dell’infermiere A.
Spesso vengono ammesse a costituirsi parte civile anche delle associazioni no-profit, in base all’oggetto sociale.
La condanna all’ergastolo e al risarcimento del danno
La Corte d’Assise del Tribunale, competente a giudicare l’infermiere A. nel processo di primo grado, lo ha condannato all’ergastolo, così come richiesto dalla pubblica accusa, nonché al risarcimento del danno nei confronti dei parenti delle vittime, dell’ospedale presso cui lavorava e dell’associazione di consumatori, tutti costituiti parti civili.
Si tratta solo di una sentenza di primo grado, che sancisce una condanna non definitiva che con grandi probabilità verrà appellata. La vicenda, tuttavia, mette in luce un grande problema delle strutture ospedaliere: lo stress del personale sanitario, spesso costretto a turni massacranti e pressioni lavorative di ogni genere per ottenere migliori performance nonostante la carenza di personale. È forse giunto il momento di chiedersi seriamente se gli operatori sanitari abbiano bisogno di un supporto psicologico sul lavoro e se i controlli interni agli ospedali siano davvero così efficienti: se così fosse stato, probabilmente l’infermiere A. (che è ancora un presunto innocente, sia ben chiaro) non sarebbe arrivato né ad uccidere né a pensare di uccidere le due pazienti solo per una ritorsione nei confronti dell’ambiente lavorativo in cui operava e si sentiva oppresso e maltrattato.