Danno da inquinamento ambientale: chi paga?

“Paga, chi inquina”: è quanto stabilito dalla sentenza n. 3077 del 2023 della Corte di cassazione a Sezioni Unite, che ha esaminato la normativa in materia di responsabilità in punto di inquinamento di falde acquifere

L’inquinamento è ormai al centro di ogni impegno politico, istituzionale, sociale, civico. Non possiamo fare a meno di pensare all’ambiente che ci circonda, senza considerare l’incognita inquinamento che influisce sull’andamento di ogni cosa, compresa la nostra salute.

E a proposito di inquinamento, anche i Giudici di legittimità iniziano a pronunciarsi sull’argomento e a tracciare le basi per i sani principi da tenere a mente. Stringente ed essenziale è il tema, ma altrettante importanti sono le basi per un inquadramento giuridico che vede l’inquinamento al centro.

Prima di ogni cosa, però, dobbiamo considerare cosa si intende per “ambiente”.

L’ambiente è “bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutele; ma tutte nell’insieme, sono riconducibili ad unità”.

Questo è quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nel 1987 quando è stata chiamata a decidere sul tema, ripreso poi con la riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, che ha stabilito che lo Stato avesse competenza legislativa esclusiva in tema di “Tutela ambientale, ecosistema e beni culturali”.

Nel 2015, il tema venne considerato serio a tal punto da prevedere l’inserimento dei delitti contro l’ambiente anche nel codice penale (L. n. 68/2015), rafforzando quanto previsto dal Codice dell’Ambiente (d. lgs. 152/2006).

La legge, in estrema sintesi, ha apportato le seguenti modifiche:

  • Ha introdotto nel codice penale un nuovo, autonomo capo, dedicato ai delitti contro l'ambiente, prevedendo disposizioni di coordinamento nello stesso codice e in leggi speciali;
  • Ha modificato il Codice dell'ambiente, in particolare introducendo una specifica disciplina per l'estinzione degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale;
  • Ha previsto la responsabilità amministrativa dell'ente anche in relazione alla commissione da parte dei suoi dipendenti dei nuovi delitti contro l'ambiente;
  • Ha inasprito le sanzioni irrogabili per alcuni illeciti previsti dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via d'estinzione.

L'articolo 1 della legge n. 68 del 2015 ha, così, introdotto nel libro secondo del codice penale il nuovo Titolo VI-bis (Dei delitti contro l'ambiente), con il quale si prevedono sei nuovi delitti:

  1. inquinamento ambientale;
  2. disastro ambientale;
  3. traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività;
  4. impedimento del controllo
  5. omessa bonifica;
  6. ispezione di fondali marini.

Il rischio di danno ambientale coinvolge chiunque, non solo individui e persone fisiche ma anche e soprattutto le aziende che devono, quindi, fare i conti con le emissioni e il protagonista assoluto: l’inquinamento.

Ma cosa si intende per “inquinamento”?

Ogni modifica della normale composizione o stato fisico degli elementi naturali di acqua, aria, suolo e sottosuolo, dovuta alla presenza di una o più sostanze disperse o scaricate nell’ambiente può causare inquinamento. Quest’ultimo può intendersi in due accezioni:

  • inquinamento improvviso e/o accidentale ovvero non facilmente definibile o interpretabile, causato accidentalmente, quindi anche da guasti;
  • inquinamento progressivo o graduale ovvero dovuto a dispersioni più o meno graduali e prolungati nel tempo.

In entrambi i casi, incidono poi i più svariati fattori ambientali che portano a rintracciare nell’azienda che ha causato quel tipo di inquinamento come la responsabile. Quest’ultima dovrà successivamente rispondere di due tipi di responsabilità:

  • civile o da interruzione di attività che prevede l’obbligo di risarcimento danni a terzi;
  • ambientale, che implica l’obbligo di bonifica e ripristino del sottosuolo, suolo, acque superficiali e sotterranee, specie e habitat naturali.

La sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione n. 3077/2023

Proprio in merito a quest’ultimo proposito, la Corte di Cassazione è intervenuta, procedendo ad una importante disamina in materia di responsabilità relativa all’inquinamento delle falde acquifere, affermando la propria giurisdizione in materia di impugnazioni delle decisioni del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

Senza tralasciare la legislazione nazionale in merito, le SS.UU. hanno trattato il ricorso in pubblica udienza, affermando il principio per cui “Chi inquina, paga”, come stabilito dalla Direttiva 2004/35/CE e secondo la logica sempre operante a livello di inquinamento ambientale “anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione”.

Secondo la Cassazione, infatti, la normativa nazionale deve essere letta e interpretata in armonia con i principi dell’Unione Europea. Considerando, tra l’altro, che sia nell’uno che nell’altro caso, non esistono norme ad hoc, riferite proprio alla responsabilità ambientale, va da sé che semplicemente la qualità di proprietario del sito e/o titolare di un’azienda che giace o scarica in quel sito, stabiliscano l’oggettiva responsabilità del danno ai fini risarcitori o, prima ancora, determinano a suo carico obblighi di natura precauzionale.

Nella sentenza emessa, inoltre, è stato ribadito che nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea la politica di protezione ambientale si incentra e struttura sul principio prioritario che lega indissolubilmente l’obbligazione riparatoria al soggetto che ha inquinato “… al fine di indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (Direttiva 21 aprile 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/35/CE). La quantificazione del danno, poi, è concomitante con il nesso causale e sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di indagare e identificare il soggetto autore della contaminazione cui indirizzare la diffida ad intervenire per il risanamento restando, a carico del proprietario, il solo obbligo di comunicare la presenza di contaminazioni attuali o potenziali.

Stabilendo quanto sopra, la Corte ha poi particolareggiato e richiamato, quindi precisato la nozione di “attività” rilevante in materia, e quella di “operatore”, evidenziando come una ipotesi di responsabilizzazione oggettiva in materia confliggerebbe con il principio comunitario espresso nel concetto del “chi inquina paga”, ribadendo che gli obblighi dei “soggetti non responsabili” e del (semplice) proprietario sono limitati alla comunicazione del pericolo o del danno, ed all’attuazione delle misure di prevenzione indicate dall’art. 242, in un contesto normativo che distingue “misure di prevenzione”, “riparazione”, e “messa in sicurezza di emergenza”, “operativa” e “permanente”.

Tra l’altro, ha richiamato la normativa di riferimento (art. 2050 c.c., art. 2051 c.c., art. 253 Codice dell’ambiente) e i principi espressi da poco proprio con riguardo al “Chi inquina, paga” espresso già con decisione n. 25039/2021, quali:

  • è necessaria l’individuazione di un “responsabile”;
  • è all’ “operatore” che compete di dare corso alle misure di riparazione adeguate, ed è lui il soggetto cui può rivolgersi la P.A. per imporre le necessarie attività, con obbligo di quest’ultima di individuarne l’identità;
  • sull’amministrazione incombe, altresì, l’obbligo di accertare il nesso di causalità a monte del fenomeno dannoso, sia quando si applica la responsabilità oggettiva degli operatori, che quando è richiesto l’accertamento dell’elemento soggettivo;
  • la facoltà riconosciuta agli Stati membri di adottare misure più severe rispetto a quelli continentali deve, comunque, risultare sempre compatibile con quanto disposto dai Trattati.
Di: Redazione Consulcesi Club

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