Di recente, la Corte di Cassazione Sez. Lavoro è ritornata, con la sentenza n. 21934/23, sulla questione della prassi di alcune aziende sanitarie di assegnare ai propri dipendenti un numero di turni di pronta disponibilità superiori ai limiti imposti dalla contrattazione collettiva, considerando questa pratica abusiva e comunque lesiva dell’incomprimibile diritto del lavoratore a godere di un tempo di riposo, che sia realmente tale da consentire il recupero delle energie psicofisiche spese durante i giorni ordinari di lavoro.
Il Caso e la decisione della Cassazione
Nel caso specifico, veniva scrutinata la domanda proposta, già in primo grado, da un conducente di ambulanza che, assegnato al pronto soccorso di un ospedale, era stato impegnato per un numero di turni di pronta disponibilità ampiamente superiore a quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva; da qui la richiesta di inibire all’azienda l’assegnazione di turni superiori al limite previsto, se non in caso di comprovata necessità, il riconoscimento di un’ulteriore indennità in caso di superamento e, comunque, il risarcimento del danno psico-fisico patito derivato dalla condotta datoriale ritenuta abusiva.
Respinta la domanda in primo grado, analoga sorte seguiva in sede di appello, ritenendo la Corte non sussistere il diritto del lavoratore a richiedere una pronuncia giudiziale che inibisse al datore di lavoro l’assegnazione di turni di pronta disponibilità superiori a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, neppure potendo intervenire sull’eventuale riconoscimento dell’indennizzo, perché di competenza della stessa regolamentazione, né tantomeno riconoscere l’eventuale risarcimento, trattandosi di un esubero ritenuto non particolarmente eccessivo.
Ulteriormente impugnata la pronuncia resa dalla Corte di Appello, la Suprema Corte si è occupata dapprima di circoscrivere il perimento della disputa da intendersi limitata, nello specifico, alla contestata illegittimità della condotta datoriale per aver imposto al dipendente un numero di turni di reperibilità superiori a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, con conseguente pregiudizio per il lavoratore.
Riprendendo l’analogo ragionamento già sviluppato per la categoria medica, si è rievocato il principio per cui la regola, secondo la quale non possono essere previsti più di 10 turni di pronta disponibilità al mese (6 per il comparto), non deve considerarsi quale limite invalicabile, fatto salvo il diritto del lavoratore alla retribuzione per i turni eccedenti e la possibilità di invocare il risarcimento del danno, qualora questa modalità abbia comportato un pregiudizio per il recupero delle sue energie psico-fisiche.
Questo significa – a detta della Corte – che il superamento dei limiti di turni previsti dalla contrattazione collettiva non costituisce di per sé inadempimento datoriale, ma può trasformarsi in un’ipotesi meritevole di risarcimento qualora ciò violi gravemente il diritto del lavoratore a godere del riposo, così da poter condurre una vita personale compatibile con il maggior impegno lavorativo richiesto dall’azienda.
Calando questi principi nel caso specifico, la Corte ha quindi censurato il ragionamento proposto nella sentenza di merito impugnata, evidenziando come il numero di turni assegnati al lavoratore, correlati al periodo incriminato, fosse assolutamente sproporzionato.
Neppure il fatto che si trattasse, in molti casi, di prestazione di mera disponibilità avrebbe potuto rappresentare un esimente atteso – come si legge – “l’impatto di essa sulle attività che il lavoratore può svolgere per non essere direttamente impegnato nel lavoro attivo è minore, ma quella dimensione esorbitante è comunque tale da interferire senza alcun dubbio sulla vita privata dell’interessato, condizionata per quasi metà del mese (i sei turni regolamentari, più i dieci aggiuntivi) nel proprio libero svolgimento”.
Pertanto, al di là di ogni considerazione sull’invalicabilità o meno del limite previsto dalla disposizione collettiva, ciò che rileva è la manifesta intollerabilità del suo superamento mediante un ricorso ingiustificabile – e quindi sanzionabile – all’assegnazione di quantitativi di turni di reperibilità oltre ogni logica di buona fede che, in ogni caso, è insita nella stessa regolamentazione collettiva.
La questione del danno e la sua risarcibilità
Altrettanto dirimente il ragionamento proposto dalla Corte per quanto concerne il danno laddove, censurando i giudici di merito, che lo avevano escluso per mancanza di allegazioni e prove da parte del dipendente, ha ricordato che, fatto salvo il determinarsi di una patologia psicofisica, “qualora venga in gioco la violazione del diritto al riposo e dunque della personalità del lavoratore, il danno è in re ipsa”.
L’eccessivo impegno per il lavoratore, conseguente al moltiplicarsi dei turni di disponibilità assegnati al mese, ha di fatto provocato una compromissione illecita della vita personale perché, come affermato dalla Corte, “le dimensioni dell’impegno sono state tali da impedire la possibilità stessa di fare liberamente cose ad una certa distanza territoriale dal posto di lavoro; ma poi, riposo nel suo significato più pieno e completo, significa allontanamento anche mentale dalla necessità di mantenersi a disposizione del datore di lavoro e l’entità dell’impegno di cui si è detto impedisce inevitabilmente il realizzarsi di tale fine”.
Nessuna allegazione era quindi necessaria visto che la stessa disponibilità, propria del turno assegnato, reca in sé la compromissione di un aspetto della vita personale, provocando un danno alla personalità morale del lavoratore “per essersi perduto il riposo ed essersi in tal modo realizzata un’interferenza illecita nella sfera giuridica inviolabile altrui (art. 2 Cost.) munita in questo di specifico riconoscimento costituzionale (artt. 35, co. 1, e nei principi sottesi all’art. 36, co. 2 e 3 Cost.), oltre che di riconoscimento in fonti eurounitarie (direttiva 2003/88/CE) ed internazionali (Convenzioni OIL sull’orario di lavoro, a partire dalla n. 1 del 2019, resa esecutiva dal R.D.L. 1429/1923)”.
Trattandosi di lesione di beni personalissimi, il danno è quindi in sé stesso e come tale risarcibile, a prescindere dalle allegazioni, e conseguenti prove, fornite dal lavoratore su eventuali pregiudizi ulteriori che, se concretamente esistenti ed adeguatamente dimostrati, potranno essere fonte di ulteriore risarcimento.
Sarà poi il giudice che, facendo prudente ricorso ai criteri di valutazione di equità, dovrà compiutamente motivare il quantum risarcitorio, avendo cura di valorizzare adeguatamente l’incidenza della condotta illegittima datoriale sulla tutela del diritto del lavoratore di fruire del riposo.