Con la sentenza n. 17912/2024, la Corte di Cassazione ha confermato il principio per cui, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, il lavoro straordinario deve essere sempre remunerato al lavoratore a condizione che sia svolto previa autorizzazione del responsabile, che può essere rilasciata anche in modo implicito.
Ne consegue allora che, per ottenere il pagamento del compenso, non è necessario che la prestazione in regime di straordinario venga formalmente autorizzata, bastando invece che il datore di lavoro non l'abbia espressamente vietata o comunque non abbia palesato la sua contrarietà.
Il caso: infermiere fa straordinari “non autorizzati”
Un infermiere, non avendo ricevuto il pagamento di alcune prestazioni “aggiuntive” rese a favore dell’azienda sanitaria, aveva ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti della medesima struttura che, confermato con sentenza di primo grado, veniva invece revocato in sede di appello sulla motivazione che le prestazioni oggetto di richiesta economica non erano state autorizzate, né tantomeno sussistevano le condizioni oggettive e soggettive previste dal D.L. n. 402/2001, poi recepito dal CCNL 2008/2009, senza contare che gli impegni lavorativi e di spesa erano stati ridotti per rispettare i vincoli di bilancio.
Leggi anche
Il ricorso in cassazione per gli straordinari
Visto l’esito negativo del pronunciamento di secondo grado, l’infermiere ha fatto ricorso in cassazione affidando le sue speranze di accoglimento a due motivi di censura.
Con il primo, il ricorrente denunciava la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 1375 e 2697 c.c. e degli artt. 36 e 111 della Costituzione, specificando come le prestazioni aggiuntive fossero state comunque effettuate a seguito di incarico ricevuto dall’Azienda.
Nel negare tale assunto, la Corte di Appello aveva invece affermato che, ricondotta la domanda di maggiore remunerazione all’attività svolta dall’infermiere per garantire il servizio di dialisi estiva a pazienti temporaneamente soggiornanti nella regione di riferimento, la pretesa dovesse ricondursi alle cd. prestazioni aggiuntive disciplinate, fino al 31.12.2003, dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 402 del 2001, conv. con mod. in legge n. 1 del 2002 (con effetti poi prorogati dapprima al 31.12.2006 dall’art. 6-quinquies d.l. n. 314 del 2004, conv. con mod. in legge n. 26 del 2005 e quindi al 31.5.2007 dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 300 del 2006, conv. con mod. in legge n. 17 del 2007 e quindi, ulteriormente, fino all’intervenire della contrattazione collettiva per effetto dell’art. 4 della legge n. 120 del 2007) e poi regolate, attraverso il richiamo alla medesima disciplina, dall’art. 13 del CCNL 10.4.2008 (normativo 2006-2009 ed economico 2006-2007) e dall’art. 12 CCNL 31.7.2009 (economico 2008-2009).
Tale risultando il quadro normativo e contrattuale, non risultavano però allegati e provati i fatti costitutivi della pretesa, tra i quali l’autorizzazione regionale e le condizioni soggettive dei lavoratori (prestazione di servizio a tempo pieno da almeno sei mesi; assenza di esenzioni da mansioni; etc.) per cui, difettando anche una regolamentazione sui compensi, la domanda non poteva trovare accoglimento.
Orbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto tali affermazioni corrette, ma non esaustive a fondare la pronunciata decisione di rigetto della pretesa economica avanzata dal ricorrente.
È ben vero, infatti, che le prestazioni «aggiuntive» integrano un’ipotesi speciale che esorbita il mero svolgimento della prestazione di lavoro su incarico datoriale, essendo necessario il previo controllo sulle risorse e di coerenza rispetto agli obiettivi sanitari, siccome previste dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 402/2001 (poi confermato nelle previsioni contenute nella contrattazione collettiva applicabile al caso di specie), nonché la fissazione tariffaria specifica di queste prestazioni da attuare previa consultazione sindacale, ma è altresì vero che le prestazioni erano state effettivamente fornite oltre il debito orario, da cui è dipesa la percezione di un ricavo a favore dell’azienda medesima.
Questo significa per la Corte che, sotto il profilo della remunerazione, questa fattispecie rileva non soltanto sotto l’aspetto delle prestazioni cd. aggiuntive, ma anche di quello del lavoro straordinario così come disciplinato dall’art. 2126 c.c.
Leggi anche
Le condizioni per la remunerazione dello straordinario
Pertanto, nonostante le previsioni contenute nella contrattazione collettiva richiedano la preventiva autorizzazione dirigenziale per poter svolgere lo straordinario, la Corte ha voluto espressamente sottolineare che, nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche quando la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo.
Pertanto, anche laddove non dovessero ricorrere requisiti specificatamente richiesti dalla norma, l'attività lavorativa effettuata oltre il debito orario integra comunque il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, “purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica, il quale determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione”.
Volendo definire l’atto autorizzativo, la Corte ha dunque affermato che, nell’ambito del lavoro straordinario, si intende il fatto che le prestazioni non siano svolte “insciente vel prohibente domino”, ossia senza la consapevolezza od addirittura contro il divieto espresso del datore di lavoro, potendo il consenso risultare anche implicitamente.
Tale consenso, come si è scritto sopra, una volta esistente, integra gli estremi che rendono necessario il pagamento e ciò anche ove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, ovvero esorbitino limiti di spesa pubblica.
Semmai – afferma la Corte – “il tema si sposta sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni; ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati”.
Il principio di diritto dei lavoratori sugli straordinari
Logico corollario del ragionamento che precede, è stata così l’adozione del seguente principio di diritto, a cui dovrà uniformarsi la Corte di Appello in sede di riesame della cassata decisione, per cui “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.”.