Diagnosi tardiva e perdita dell’aspettativa di vita: risponde il medico?

In caso di diagnosi tardiva di una malattia neoplastica, in linea di principio, i sanitari possono essere chiamati a rispondere della morte del paziente: tuttavia, durante il processo devono emergere prove valide e solide che dimostrino il nesso di causalità tra il ritardo e il decesso

Sommario

  1. Diagnosi tardiva e responsabilità penale: cosa dice la legge
  2. La verità processuale: perché i medici sono stati assolti

La signora A. nella primavera del 2013 inizia a sviluppare dei sintomi di malessere a livello dell'apparato gastrointestinale, mai avuti prima; preoccupata, nel giugno 2013 si rivolge a una nota struttura della sua città, affidandosi alle cure del dott. B.

Nonostante i sintomi facessero pensare a qualche patologia legata al pancreas, la signora A. viene sottoposta a un prelievo dell'epitelio duodenale di superficie, su cui viene eseguito un esame istologico.

Dopo un consulto con un team multidisciplinare, il dottor B. referta l'esame istologico, attribuendogli valore non diagnostico, in quanto il risultato era stato collettivamente interpretato come “inconcludente”.

La signora A. viene perciò sottoposta a numerosi altri esami, fino ad arrivare, solo nel gennaio 2014, ad una definitiva diagnosi di tumore al pancreas, per la quale si affida alle cure dell'oncologo dott. C., che le prescrive la terapia farmacologica.

Purtroppo, la terapia farmacologica, che inizialmente sembra aggredire il tumore, non sortisce l'effetto sperato, e la signora decede dopo pochi mesi di gravosa agonia.

I figli della signora A. ritengono che se la diagnosi fosse stata maggiormente tempestiva la madre non sarebbe deceduta in così breve tempo, e comunque non lo avrebbe fatto tra atroci sofferenze.

In particolare, i figli della signora A. sostengono che se la neoplasia fosse stata tempestivamente diagnosticata e operata nel luglio 2013, le chance di sopravvivenza sarebbero state, secondo le statistiche, comprese tra due anni (nel 70-75% dei casi) e 5 anni (fino al 45-50% dei casi), anziché pochi mesi dalla diagnosi, come accaduto per la madre.

Sporgono quindi denuncia nei confronti del dottor C. e del dottor B., accusandoli della morte della madre.

Diagnosi tardiva e responsabilità penale: cosa dice la legge

I due medici vengono indagati e poi rinviati a giudizio per il reato di omicidio colposo, all'epoca (2012) l'unico reato di cui poteva essere accusato un medico nel caso di malpractice; non esisteva ancora, infatti, l'art. 590 sexies cp, che oggi disciplina la responsabilità per morte o lesioni personali in ambito sanitario.

Dopo i primi due gradi di giudizio, che vedono assolti i medici perché il fatto non sussiste, il processo arriva in Cassazione, per poi essere rimandato nuovamente alla Corte d'appello per la sentenza definitiva; nel fissare il rinvio, la Cassazione chiede alla Corte d'appello di valutare se i medici abbiano “temporeggiato” troppo nell'effettuare la diagnosi, attuando così una colpevole omissione nel disporre gli opportuni accertamenti diagnostici volti ad individuare in tempo la neoplasia della signora A.

In pratica, la Corte di Cassazione chiede alla Corte d'appello, nel mettere la parola FINE su questa vicenda, di accertare se, in termini di elevata probabilità logica, qualora tempestivamente diagnosticata e trattata, la malattia tumorale da cui era affetta la signora A. avrebbe comunque consentito alla paziente una sopravvivenza apprezzabile.

Il processo, di fatto, si fonda prevalentemente sulle risultanze dell'esame peritale, l'unico strumento a disposizione dei magistrati per comprendere se vi sia stato un colpevole ritardo diagnostico. Dalla perizia è emerso che:

  • la biopsia eseguita sui frammenti di epitelio duodenale di superficie, anziché sul pancreas, refertati dal dott. B., è stata ritenuta un esame inconcludente, tant'è che un team multidisciplinare di sanitari ha collettivamente scelto di proseguire con ulteriori indagini strumentali necessarie a caratterizzare la neoformazione della signora A., ripetendo nuovamente la biopsia,
  • tra il referto della biopsia a firma del dott. B. e il successivo decesso della signora A. non può esserci alcun nesso causale, posto che lo stesso ha qualificato la biopsia come non diagnostica,
  • la terapia da applicare al paziente dipende dallo stadio del tumore, non dal volume della sua massa, perciò una differente crescita non avrebbe alterato la decisione dell'oncologo dott. C. circa la terapia da attuare, chirurgica o farmacologica,
  • agli occhi dei più l'atteggiamento dell'equipe medica potrebbe apparire come inutilmente attendista, in quanto si sarebbe potuto intervenire chirurgicamente sulla signora A. anche in assenza della seconda biopsia confermativa, tuttavia è accettabile e condivisibile, al pari di un atteggiamento aggressivo, anche quello più prudente del chirurgo che prima di intervenire in maniera cruenta su organi così vitali – con tutti i rischi che derivano da un intervento così invasivo – decida di attendere la conferma diagnostica.

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La verità processuale: perché i medici sono stati assolti

La signora A. è risultata affetta da una malattia borderline resectable, sufficientemente estesa da impedire di ricorrere a una terapia chirurgica risolutiva al momento della diagnosi, ma non tanto da escludere a priori questa possibilità, purché in seguito a un trattamento chemioterapico caratterizzato da una buona risposta tumorale.

La buona risposta alla chemioterapia, tuttavia, non c'è stata, nè vi sarebbe stata se la terapia fosse stata iniziata nel giugno 2013 anziché nel gennaio 2014: difatti, i periti hanno accertato che il ritardo diagnostico non aveva determinato una diminuzione della durata di vita della signora, né tantomeno ne aveva diminuito le chance di sopravvivenza, escludendo così ogni nesso causale tra eventuali omissioni dei sanitari e il suo decesso.

Non essendo emerso, dall'istruttoria del processo penale, una prova affidabile circa il fatto che una diagnosi e un trattamento della patologia tempestivi avrebbero consentito alla signora A. di avere una “sopravvivenza apprezzabile”, da intendersi non solo in termini di durata della vita ma anche di qualità della stessa, i medici sono stati definitivamente assolti dall'accusa di averne cagionato la morte, perchè il fatto non sussiste.

La condanna di un cittadino per un reato, infatti, non può e non deve avvenire sulla base di indizi, ma di prove certe: c’è in gioco la libertà delle persone, e per quanto siano condivisibili e apprezzabili le ragioni della persona offesa dal reato, vale il principio per cui “meglio un colpevole libero che un innocente dietro le sbarre”.

Di: Manuela Calautti, avvocato

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