È di questi giorni la notizia della pubblicazione dell’ordinanza n. 2549/2025, con cui la Corte di Cassazione ha fornito alcuni importanti chiarimenti relativi ai criteri e relative modalità con cui, alla luce delle disposizioni contenute nella legge n. 219/2017 (cd. DAT), devono essere risolti i casi in cui i genitori di un minore non esprimano il consenso all’esecuzione di trattamenti, che il medico ritenga appropriati e necessari per la cura di una patologia riscontrata.
Il caso concreto: il rifiuto dei genitori alla trasfusione e il ricorso al Giudice tutelare
L’episodio, che ha dato luogo al contenzioso, riguarda un intervento programmato nei confronti di un minore per il quale era stata prospettata, con alto grado di probabilità, la necessità di ricorrere a trasfusioni di sangue.
Sottoposto dai sanitari il relativo questionario per raccogliere il previsto consenso informato, i genitori del bambino di 2 anni condizionavano la loro adesione al fatto che il sangue provenisse da donatori non vaccinati anti Sars-Cov-2, rendendosi altresì disponibili a reperire donatori rispondenti a questo requisito.
A sostegno della loro posizione, costoro ponevano sia questioni afferenti la presunta pericolosità della proteina spike contenuta nel vaccino che, per altro verso, motivazioni di natura religiosa dal momento che, per realizzare il vaccino, si sarebbe fatto ricorso a linee cellulari provenienti da feti abortiti.
Di contro, l’azienda ospedaliera, non potendo garantire la rispondenza dei donatori alla condizione richiesta, ne potendo aderire alla richiesta di poter utilizzare donatori privati non vaccinati, presentava ricorso al Giudice tutelare territorialmente competente, ai sensi dell’art. 3, comma 5, legge n. 219/2017, reclamando l’autorizzazione a rilascio del consenso all’intervento ed all’eventuale trasfusione, con nomina di un curatore speciale identificato nel suo Direttore.
Con successivo decreto, il Giudice nominava il direttore generale curatore del minore al fine di esprimere il necessario consenso all’intervento, con relativo trattamento trasfusionale secondo i modi previsti.
Questo provvedimento veniva dapprima reclamato davanti al Tribunale per i minorenni, che lo respingeva, con conseguente ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Il quadro normativo: consenso informato e limiti decisionali per i genitori
Ripercorrendo i tratti salienti della disciplina generale sul consenso informato, siccome integrata dalle previsioni contenute nella L. n. 219/2017 (cd. DAT, Direttive anticipate di trattamento), si è ricordato che, in caso di minori, il secondo comma dell’art. 3 stabilisce che l’assenso al trattamento sanitario può essere espresso, o rifiutato, da coloro che esercitano la potestà genitoriale, ovvero dal tutore, tenendo però conto della volontà dello stesso minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità.
Nell’ipotesi in cui questi soggetti rifiutino il consenso a far sottoporre il minore ad un trattamento sanitario che, invece, il medico ritenga appropriato e necessario, la decisione potrà essere rimessa al giudice tutelare previo ricorso presentato dal rappresentante legale della persona interessata, o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile, ovvero dal medico o dal rappresentante legale della struttura sanitaria.
La norma, allora, stabilisce dei parametri di valutazione della condotta genitoriale nell’esercizio del loro potere di rappresentanza, che pertanto non potrà essere avulsa dal rispetto di alcuni specifici criteri:
- tenere in massima considerazione la volontà espressa del minore, in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità;
- considerare quale obbiettivo preminente la tutela della salute del minore nel pieno rispetto della sua dignità, ponderando accuratamente il parere medico e della comunità scientifica sulla questione.
Cosa succede se i genitori rifiutano le cure? Il ruolo del Giudice tutelare
Prima dell’introduzione della DAT, l’eventuale dissenso fra genitori e professionisti sanitari, riguardo ad un trattamento cui sottoporre il minore, poteva sfociare in un provvedimento di temporanea limitazione della potestà genitoriale, mentre attualmente questa possibilità viene limitata al singolo atto di svolgere.
Questo significa che, in questi casi, è possibile per gli stessi medici, o direttamente per la struttura sanitaria, adire il Giudice tutelare per attivare la procedura diretta ad ottenere, previa verifica dei suoi presupposti, l’autorizzazione a procedere allo specifico intervento, anche senza il preventivo consenso genitoriale.
L’interesse del minore prima di tutto: il principio guida della decisione
Nel valutare le censure portate dai genitori del minore nel loro ricorso, la Corte ha preliminarmente ribadito come l’art 3 della DAT si ponga a presidio della procedura di acquisizione di un valido consenso per i soggetti incapaci (fra cui i minori), inserendo un meccanismo di risoluzione di eventuali conflitti fra il legale rappresentante e la figura sanitaria rispetto al trattamento prospettato.
Infatti, mentre il paziente, pienamente capace, esprime liberamente il proprio consenso, diversa è la situazione in cui versa colui che è rappresentato da un altro soggetto (genitore, curatore, tutore) poiché, in questi casi, la legge descrive una procedura per la formazione del consenso, dove gioca un ruolo rilevante la prospettiva propugnata dal medico, su cui grava, anche in termini di responsabilità, la decisione di richiedere la verifica giudiziale qualora ritenga la terapia appropriata e necessaria al caso concreto.
Ciò che rileva in questi casi non è tanto la compressione o meno del potere di rappresentanza dei genitori (o di altri), quanto il perseguimento della migliore soluzione possibile per la tutela dell’interesse prevalente del minore, di cui anche il medico si fa garante da un punto di vista professionale.
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Le obiezioni dei genitori: motivazioni religiose e dubbi sulla sicurezza del sangue
Sinteticamente riportati nell’incipit della decisione sul merito, i motivi di ricorso presentati dai genitori del minore avverso il provvedimento assunto dal Giudice tutelare, vengono così delineati:
- non è vero che è stato espresso dissenso rispetto all’intervento, ma soltanto richiesto che la trasfusione potesse avvenire con sangue di donatori non vaccinati contro il covid-19;
- la richiesta era fondata sia su principi religiosi, correlati all’utilizzazione nella produzione del vaccino di linee cellulari derivate da feti abortiti, sia scientifici in quanto la proteina spike, contenuta nel predette vaccinazioni, avrebbe potuto determinare un rischio di danno al minore;
- i genitori si erano dichiarati comunque disponibili a fornire sangue proveniente da donatori non vaccinati.
Le risposte della Corte: perché il consenso condizionato non è valido
Passando in rassegna i motivi di ricorso, la Corte ha dapprima ricordato che il consenso vincolato all’avveramento di una condizione non attuabile equivale a non prestarlo, per cui, come si legge in motivazione, “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, incidendo sulla sfera di autodeterminazione del medico che in questo caso può rifiutare l'intervento”.
Non volendosi indugiare sulle contrapposte interpretazioni dei documenti prodotti dalla dottrina religiosa, ciò che rileva da un punto di vista di diritto è il fatto che, nel caso di specie, si è pervenuti alla sovrapposizione della propria identità religiosa a quella del minore.
In buona sostanza, si afferma che i genitori, pur essendo i soggetti prioritariamente deputati alla costituzione dell’identità del minore, tuttavia devono farlo sempre nel rispetto delle sue inclinazioni e prerogative che, nel confronto anche con realtà terze rispetto alla famiglia, potranno condurre il minore anche a scelte diverse, che andranno comunque rispettate.
Questo significa – a tenore della Corte – che anche l’educazione religiosa rientra fra i compiti genitoriali, ma sempre nell’ottica che il minore potrà, in futuro, fare scelte eventualmente diverse, sicchè non potrà venirne pregiudicato nella tutela degli altri diritti, altrettanto rilevanti, come quello alla salute.
È chiaro allora che il bilanciamento fra le scelte religiose dei genitori non potranno, quindi, prevalere rispetto agli altri interessi di cui il minore è portatore, per cui la richiesta, condizionante la prestazione del consenso, a che le trasfusioni provenissero da donatori non vaccinati è stata ritenuta non coerente con la valutazione dei diritti e degli interessi del minore, di cui il giudice si fa garante nel corso della procedura autorizzativa prevista dall’art. 3 della DAT.
Neppure la critica rispetto al paventato rischio correlato alla presenza della proteina Spike ha poi colto nel segno, avendo la Corte ritenuto immune da critiche la decisione del Giudice tutelare nella parte in cui, stante il contrasto di opinioni fra genitori e medici, ha rintracciato la migliore tutela possibile per i preminenti interessi del minore nella soluzione prospettata dalla comunità scientifica sulla scorta delle conoscenze maturate al momento dell’intervento.