Trascorso il momento più cruento dell’epidemia Covid, rimangono sul tavolo della magistratura diverse questioni, figlie dei numerosi procedimenti giudiziari apertisi in quel periodo: fra questi, l’ultimo riguarda il tema, che peraltro coinvolge direttamente un dirigente medico, della possibilità di veder affermata la sua responsabilità penale per il reato di epidemia colposa.
La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’esito di una valutazione che ha riguardato alcune pronunce di legittimità, ha ritenuto sussistere i presupposti per la rimessione alle Sezioni Unite della questione afferente la configurabilità o meno del reato di epidemia colposa realizzato in forma omissiva.
Si tratta di un aspetto di particolare interesse perché, a seguito dell’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Sars-CoV-2, risultano pendenti diversi procedimenti penali, dove è stato contestato il reato di epidemia colposa per i focolai sorti nelle strutture ospedaliere o nelle RSA.
Diffusione contagio Covid, la normativa di riferimento
L’art. 438 c.p. prevede che “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo. Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena di morte”. Per quanto riguarda la pena prevista per la forma aggravata, si tratta ovviamente di un’ipotesi priva di concreta valenza dal momento che la pena di morte è stata abolita, sebbene la formulazione nella norma sia rimasta la stessa.
La forma colposa è regolata dall’art. 452 c.p., secondo il quale: “Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti previsti dagli articoli 438 e 439 è punito: 1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena d morte; 2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo; […]”.
L’art. 40, co. 2 c.p. prevede, invece, che “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” e detta, pertanto, la disciplina dei reati omissivi cosiddetti “impropri”.
Tale previsione rappresenta una estensione della tipicità penale di taluni reati realizzati in forma omissiva, non contemplati da apposite norme di parte speciale, che risultano dal combinato disposto di una norma incriminatrice e dell’art. 40 cpv. c.p.: ne risulta che, nei casi in cui è previsto un obbligo giuridico di impedire un evento, il suo mancato impedimento equivale alla produzione dello stesso con una condotta attiva.
Diffusione contagio Covid, il caso
Nel procedimento penale che ha portato alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, un dirigente medico risulta imputato del reato di cui agli artt. 40, comma 2, 438, comma 1, ed infine 452 comma 1 n. 2 c.p.
Gli è stato infatti contestato di aver cagionato, fra marzo ed aprile 2020, un’epidemia nell’Ospedale in cui lavorava, non avendo provveduto alla fornitura al personale in servizio dei necessari dispositivi di protezione individuale in numero idoneo ad impedire la diffusione del Sars-CoV-2 e, sotto altro profilo, per non aver assicurato agli stessi una formazione adeguata sul rischio biologico esistente in quel momento.
La responsabilità veniva addebitata a titolo di colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché per l’inosservanza degli obblighi previsti dalla normativa sulla sicurezza sul lavoro.
Il Tribunale, in primo grado, assolveva l’imputato con formula piena, perché “il fatto non sussiste”: veniva infatti per configurare il reato di epidemia era necessaria la prova di una condotta attiva, come tale idonea alla diffusione di germi patogeni.
Trattandosi invece di comportamento omissivo, veniva quindi concluso per l’assenza di presupposti costitutivi del delitto contestato, siccome delineati dalla norma incriminatrice.
La Procura della Repubblica proponeva, allora, ricorso immediato per cassazione nei confronti della sentenza del Tribunale, censurandola nella parte in cui non riteneva applicabile l’art. 438 c.p. all’ipotesi della condotta omissiva.
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Le indicazioni della giurisprudenza di Cassazione
Il Collegio ha quindi ritenuto opportuno rimettere la questione al vaglio delle Sezioni Unite, dovendosi preliminarmente dirimere la questione interpretativa posta dal motivo di ricorso.
La Corte ha richiamato due pronunce di legittimità che hanno negato la configurabilità del reato di epidemia colposa nella forma omissiva, specificando che non si riscontrano pronunce che abbiano espressamente accolto una interpretazione differente.
Con sentenza n. 9133/2018, la Corte di Cassazione ha chiarito che il fatto tipico previsto dall’art. 438 c.p. è modellato secondo lo schema dell’illecito “causalmente orientato”, con la conseguenza che lo stesso evento realizzato mediante un percorso differente da quello descritto dalla norma incriminatrice difetterebbe di tipicità e non costituirebbe, quindi, reato.
La norma, infatti, prevede una forma vincolata non compatibile con lo schema del reato omissivo “improprio”, riferibile al contrario a fattispecie a forma libera, dove la realizzazione può avvenire con qualunque modalità: la precisa modalità di realizzazione sarebbe la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso, non quindi una mera omissione.
La sentenza n. 20416/2021 ha chiarito, in linea con la precedente pronuncia, che la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” richieda una condotta commissiva a forma vincolata, non compatibile, ancora una volta, con il disposto dell’art. 40 cpv. c.p.: il soggetto attivo deve avere il possesso fisico dei germi e, con atto volontario, spargere gli stessi.
Epidemia colposa, la posizione della Quarta Sezione Penale
Tuttavia, il Collegio adito ha ritenuto di dover superare la tesi finora assunta dai richiamati precedenti, favorendo un’interpretazione più ampia che implichi la realizzazione del reato di epidemia colposa anche in forma omissiva: ciò perché la lettera della norma non esclude la forma omissiva.
Inoltre, il termine “diffondere”, riportato all’interno dell’art. 438 c.p., avrebbe un significato ampio a tal punto da ricomprendere le forme più diverse, anche differenti dall’azione positiva, tra cui “lasciare che si diffonda” qualcosa.
Il Collegio si addentra poi in una analisi del contesto storico in cui le norme in analisi si sono sviluppate, evidenziando come lo stesso legislatore del 1930 non abbia espressamente escluso le condotte realizzate in forma omissiva dall’ambito della tipicità, ma si sia limitato ad evidenziare la necessità di introdurre una fattispecie incriminatrice di questo tipo e che andasse a sanzionare determinate condotte. Anche dalle motivazioni del legislatore non sembra potersi desumere, quindi, con sicurezza la volontà di escludere dall’ambito di applicazione della norma le condotte realizzate in forma omissiva.
Inoltre, il riferimento alla “diffusione di germi patogeni” rileverebbe non tanto in relazione alla condotta, che ben potrebbe realizzarsi con qualunque modalità, ma in relazione al mezzo attraverso il quale si verifica l’evento: questo renderebbe, ad opinione della Corte, l’art. 40 cpv. c.p. compatibile con i reati a mezzo vincolato. La modalità di diffusione dei germi potrebbe, quindi, avvenire anche mediante condotte omissive, ossia “lasciare che i germi si diffondano”.
Infine, da una analisi della giurisprudenza relativa ad altre tipologie di reato, la Corte arriva alla medesima conclusione: non è pacifica l’incompatibilità tra reati a forma vincolata e condotta omissiva.
Per questi motivi, si sono quindi ritenuti sussistenti i presupposti per la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, affinché sia stabilisca, con un’interpretazione definitiva, la configurabilità del delitto di epidemia anche attraverso un comportamento omissivo.