A cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, pioniere della riforma psichiatrica italiana, riemerge con forza il dibattito sull’efficacia della Legge 180. Promulgata nel 1978, la legge non solo ha chiuso i manicomi ma ha rappresentato una profonda revisione del rapporto tra Stato e malattia mentale, offrendo una visione centrata sulla dignità, i diritti e l’inclusione sociale dei pazienti psichiatrici. A 46 anni dalla sua introduzione, si rende necessario interrogarsi sui limiti da superare e sull’eredità da proteggere per rispondere ai nuovi bisogni della società e dei pazienti. A tale scopo, abbiamo intervistato Antonello D’Elia Psichiatra, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Democratica.
La Legge 180: un cambiamento collettivo
Una delle principali incomprensioni è l’idea che una legge sulla psichiatria debba offrire risposte specifiche per ogni problematica sociale che ha esiti sul malessere delle persone. Come spiega il professor Antonello D’Elia “la Legge 180 nasceva da un’idea di rapporto tra Stato, salute e malattia mentale, ispirata ai principi di partecipazione e responsabilizzazione del cittadino. Tuttavia, negli anni, questi principi non solo sono stati applicati in modo disomogeneo ma sono stati distorti da leggi regionali, accorpamenti di servizi e perdita della prossimità delle cure. Per non parlare della carenza di risorse materiali e di personale. Una questione che vale per tutta la sanità pubblica, peraltro”.
Il fenomeno del revisionismo semantico dell’espressione salute mentale
Con l’evoluzione della società, sono emerse nuove criticità e nuove espressioni della sofferenza delle persone. La pandemia di COVID-19, ad esempio, ha intensificato l’attenzione verso il disagio psichico nella popolazione giovane, senza però fornire risposte strutturali adeguate, non solo psichiatriche. “Oggi, osserviamo una pressione crescente sui Dipartimenti di Salute Mentale, con carenze significative di personale formato e consapevole”, afferma il professor Antonello D’Elia. “Non ci si può preoccupare di aumentare i posti letto, ospedalieri, di comunità terapeutiche, di REMS senza chiedersi quali e quanto professionisti lavoreranno e cosa faranno. Sono sempre più necessari operatori qualificati, capaci di instaurare una relazione terapeutica che vada oltre la diagnosi medica. Si può insegnare a stare con i pazienti e a fare clinica perché questa vuol dire prendersi cura, attività che non si esaurisce negli atti specialistici e ha a che fare con i contesti.”.
Secondo il professore, l’estensione del termine “salute mentale” ha generato confusione e un vero e proprio “revisionismo semantico” che rischia di appiattire la complessità delle diverse forme di sofferenza psichica. “Assistiamo a un processo di medicalizzazione di problemi sociali ed esistenziali, e le difficoltà legate al disagio adolescenziale, alla solitudine degli anziani o alla precarietà relazionale vengono trattate come disturbi da diagnosticare e trattare attraverso la psichiatria tradizionale, con rischi di inappropriatezza e di riduzionismo patologico”.
Violenza e sicurezza: una visione problematica
Le recenti proposte legislative avanzate in Senato dalla Lega e da Fratelli d’Italia hanno riacceso il dibattito sulla Legge 180, sollevando preoccupazioni tra quei professionisti che si riconoscono in una psichiatria pubblica di comunità. Queste proposte sembrano enfatizzare un approccio ospedaliero e un ritorno alla centralità dei posti letto, pubblici e soprattutto a convenzione, anziché promuovere un modello che rispetti uno spirito sociale e partecipativo. Viene riproposta una visione della malattia psichiatrica legata alla violenza e avanzate misure repressive, a tutela, si dice, dei familiari e degli operatori. “La violenza contro gli operatori è un problema reale, ma ciò non implica che vi sia un aumento della violenza connaturata alla malattia mentale”, spiega il professor Antonello D’Elia. “Piuttosto, vi è una distanza crescente tra i pazienti e le istituzioni di cura, una frattura che potrebbe essere ridotta investendo in una psichiatria che riconosca la centralità della relazione terapeutica e la specificità del dolore psichico”.
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L'introduzione dell'intelligenza artificiale (IA) in ambito di salute mentale promette una rivoluzione nel supporto clinico, grazie alla sua capacità di analizzare grandi quantità di dati e identificare i disturbi precocemente. Tuttavia, l’ingresso della tecnologia in psichiatria solleva una riflessione più ampia: di quale psichiatria parliamo? Quali processi diagnostici ci immaginiamo? La psichiatria tradizionale è fondata su manuali diagnostici standardizzati e criteri sintomatologici costruiti in modo compilativo incapaci di cogliere le sfumature soggettive del disagio psichico. Come osservato dal professor Antonello D'Elia, in questo scenario ci si chiede se gli interventi precoci possano davvero distinguere una malattia in fase di sviluppo da un disagio momentaneo o da un processo che, se affrontato nel modo giusto, potrebbe avere esiti evolutivi e non regressivi. L’IA è in grado di riconoscere questa complessità o rischia di appiattire la sofferenza umana a parametri puramente quantitativi?
Molti non sanno che uno dei primi programmi di IA, PARRY, fu progettato per simulare una conversazione con una persona affetta da paranoia, in cui un programma rispondeva alle domande senza mai rispondere veramente. Questo avveniva perché era fondato su uno schema cognitivo rigido e non relazionale, e quindi privo di quella dimensione umana che èfondamentale per una diagnosi che richiede sempre un atteggiamento empatico e un’attenzione alla persona e non solo ai suoi sintomi più evidenti. La paranoia, d’altronde, non è solo un disturbo del pensiero, ma una frattura nella relazione, dominata dalla paura che l’altro possa causare un danno. Come può, allora, una macchina cogliere un dolore così intimamente umano, se la sua risposta è limitata a uno schema logico e non a una relazione autentica? Oltretutto non basta fare diagnosi per curare. Come sottolinea il professor D'Elia, questa limitazione mette in evidenza la difficoltà della macchina nel cogliere la profondità del disagio umano.
Un aspetto cruciale nella pratica clinica è la capacità empatica del terapeuta, parte integrante del processo diagnostico e di cura, come sostenevano grandi clinici e psicopatologi del secolo scorso. La reazione emotiva del medico non è solo un riflesso umano, ma uno strumento diagnostico che permette di cogliere sfumature spesso fondamentali per una comprensione profonda del paziente. La macchina, per quanto avanzata, non arriva a sviluppare alcuna attitudine emotiva, ed è dunque limitata a un supporto tecnico, incapace di sostituire il ruolo umano del clinico. Come osserva il professor D'Elia, l’empatia e la relazione sono indispensabili nella diagnosi e nel trattamento, e non possono essere replicate da un algoritmo.
Il futuro della salute mentale
Il futuro della salute mentale non può che essere centrato sulla relazione.Alla luce di queste considerazioni, è necessario restituire alla salute mentale un suo campo di azione specifico, che non sia esclusivamente medico o biomedico, ma che includa la psicopatologia, l’inclusione sociale e la dimensione terapeutica. Una psichiatria che si occupi solo di diagnosticare, mantenere o intrattenere, e che non si preoccupa della vita delle persone e di promuoverne la soggettività diventa pratica di controllo e di sottomissione. Invece bisogna lavorare per riattivare, nei limiti pur sempre presenti per ognuno, quei processi che ne hanno bloccato lo sviluppo delle persone. Come affermato dal professor D'Elia, ciò richiede un piano d’azione nazionale operativo e finanziato che valorizzi un approccio integrato e promuova una formazione clinica non limitata alla psichiatria biomedica, ma svolta sul campo, capace di includere un approccio umanistico e relazionale non appiattito sulla dimensione naturalistica oggettivante.