Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro fa cessare unilateralmente il rapporto di lavoro, a prescindere dalla volontà del dipendente. Si tratta di una delle modalità di estinzione del rapporto di lavoro che si formalizza come atto unilaterale recettizio da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, il quale è portato a conoscenza del fatto che il rapporto è stato interrotto. Soltanto dopo che l’atto è diventato recettizio assume efficacia.
Al contrario, il recesso da parte del lavoratore si traduce in “dimissioni” e, pur essendo sempre un negozio unilaterale ma proveniente dal prestatore di lavoro, rientra nei diritti di quest’ultimo ed è anche in questo caso recettizio.
L’ordinamento giuridico italiano prevede diversi tipi di licenziamento: per giusta causa, per giustificato motivo – oggettivo o soggettivo; licenziamento collettivo. La disciplina normativa è prevista all’interno della Legge n. 604/1996 e la n. 108/1990 ma anche dal nostro Codice civile e conseguenti modifiche apportate a tutte le normative citate.
Quando si può licenziare?
Licenziamento è sostanzialmente la cessazione del rapporto di lavoro tra il datore e il subordinato lavoratore. Come accennato, questo tipo di rapporto viene interrotto unilateralmente e, in particolare, dal datore di lavoro il quale dovrà esercitare questa azione, seguendo dei precisi limiti e delle rigide modalità. In particolare, il licenziamento del lavoratore dipendente può avvenire secondo quanto previsto dall’art. 1 della L. 604/1996 e dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Le motivazioni devono essere addotte alla condotta del lavoratore o alla situazione dell’azienda.
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Il licenziamento si compone di vari ambiti da tenere in considerazione: tempistiche, comunicazione, modalità di impugnazione. Per conoscerli e proteggerti, scarica la Guida Consulcesi Club.
Il licenziamento per giusta causa
Licenziare rientra tra le facoltà affidate al datore di lavoro, il quale dovrà attenersi a regole ben precise e alle motivazioni da addurre al licenziamento. Innanzitutto, la forma più comune di licenziamento è quello per giusta causa, disciplinato dall’art. 2119 c.c..
“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.” – così recita l’articolo che si riferisce alla forma più grave di licenziamento: Alla base di questo, vi è un grave inadempimento da parte del lavoratore, tale da compromettere il rapporto di fiducia con il suo datore di lavoro e che viene definita come “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”.
L’immediato effetto espulsivo è il “licenziamento in tronco”, compatibile con un congruo intervallo di tempo necessario all’accertamento dei fatti contestati al lavoratore.
La condotta del lavoratore, in tal caso, è così grave da determinare il recesso immediato del rapporto di lavoro, senza la corresponsione dell’indennità di preavviso. La giusta causa, come può essere l’insubordinazione nei confronti dei superiori, fa venir meno l’elemento fiduciario tra datore e lavoratore e include anche le varie violazioni commesse dal lavoratore. Nella l. 183/2010, il legislatore ha previsto che, nel valutare le motivazioni del licenziamento, sia vincolato alle tipizzazioni della giusta causa o del giustificato motivo contenuti all’interno dei CCNL di riferimento.
A titolo esemplificativo, possono costituire giusta causa di licenziamento: rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione; rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una malattia; lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro; sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie);condotta extra lavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario).
Il licenziamento per giusta causa non va confuso con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo
È delineato nel caso in cui il dipendente è destinatario di un provvedimento disciplinare. Tali casi includono, tra gli altri, il comportamento negligente del dipendente o la scarsa prestazione lavorativa, la violazione degli obblighi contrattuali, oppure il danno agli interessi importanti del datore di lavoro. Parimenti a quello per giusta causa, anche quello per giustificato motivo soggettivo rientra nell’alveo dei licenziamenti disciplinari, a cui andrà applicata la procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori; secondo tale disposizione, il datore di lavoro dovrà effettuare una precisa contestazione dell’addebito al lavoratore.
Possono costituire ipotesi di giustificato motivo soggettivo: l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro; minacce, percosse; reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento; rissa sul posto di lavoro. Anche in questo accade che, sempre più spesso, il contratto collettivo viene a indicare quali condotte siano passibili di licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Altri particolari casi di licenziamento
Tra gli altri casi di licenziamento rientra certamente quello per giustificato motivo oggettivo, necessario per una riorganizzazione del lavoro, per ragioni relative all’attività produttiva, per ragioni legate alla natura economica o tecnica.
Possono costituire casi di giustificato motivo oggettivo:
- la chiusura dell'attività produttiva;
- la soppressione del posto di lavoro;
- l’introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani;
- l’affidamento di servizi ad imprese esterne;
- l'accorpamento delle mansioni al datore di lavoro.
Tutte le volte in cui, per questi stessi motivi, il licenziamento è diretto a più di 5 lavoratori in 120 giorni, si è di fronte al licenziamento collettivo. In tal caso, il datore di lavoro dovrà seguire la disciplina ad hoc prevista.
Tra gli altri particolari casi di licenziamento che fanno eccezione alla regola della necessaria motivazione del licenziamento ed il cui recesso può essere intimato liberamente, fanno parte: i lavoratori domestici; i lavoratori in prova; lavoratori con più di 65 anni se uomini e 60 se donne, e diritto alla pensione di vecchiaia; dirigenti, salvi i limiti eventualmente previsti dal contratto collettivo; atleti professionisti; apprendisti al termine dell'apprendistato.
Comunicazioni e tempistiche
Il licenziamento, per qualunque tipo di motivo, va sempre comunicato per iscritto.
La forma scritta è richiesta a pena di nullità, proprio perché si tratta di un atto recettizio: ha validità soltanto una volta ricevuto dal destinatario. Quest’atto può essere consegnato tramite raccomandata a mano, per posta, per p.e.c.. Inoltre, per essere efficace deve essere correttamente consegnato” o meglio notificato alla persona a cui si riferisce. Al datore di lavoro sono posti vari obblighi come la predisposizione di un codice disciplinare e la pubblicazione di questo, con la contestazione per iscritto dell’addebito al lavoratore eseguita con immediatezza, specificità e immutabilità.
Contestato l’addebito, il lavoratore ha cinque giorni di tempo per presentare le proprie difese. È per questo che il licenziamento disciplinare non può essere intimato prima dei cinque giorni dalla contestazione per consentirne, appunto, l’esercizio di difesa.
La comunicazione dell’avvenuto licenziamento per giusta causa non deve contenere necessariamente le motivazioni; tuttavia, il lavoratore che riceve la comunicazione può richiedere che gli vengano comunicati i motivi del licenziamento entro il termine tassativo di 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento.
I motivi vanno dunque riferiti, sempre per iscritto, entro 7 giorni successivi, pena l’inefficacia del provvedimento.
L’impugnazione del licenziamento
Se le norme appena descritte vengono disattese o si ha fondato motivo di ritenere che il licenziamento sia illegittimo, allora è possibile impugnare il licenziamento. Questo va impugnato entro 60 giorni a pena di decadenza. Il termine inizia a decorrere dalla data di comunicazione qualora richiesti oppure dalla data di comunicazione del licenziamento. Se non si agisce entro questo termine, non si potranno più adire le vie legali e chiedere al Giudice di accertarne la legittimità.
Per l’impugnazione è sufficiente qualsiasi atto scritto con cui il lavoratore comunichi al suo datore di lavoro la volontà di contestare il provvedimento espulsivo. Se le dimissioni vengono contestate in tempo, il lavoratore ha cinque anni di tempo (termine di prescrizione) per intentare una causa contro il datore di lavoro, ovvero impugnare legalmente il licenziamento e ricorrere al tribunale del lavoro.
Di solito, se si vuole impugnare il licenziamento davanti a un giudice, si ha l’obbligo di agire davanti alla Direzione Provinciale del Lavoro per intentare una conciliazione, obbligatoria prima di procedere nel procedimento. Il lavoratore, quindi, richiederà la convocazione della commissione di conciliazione almeno 60 giorni prima di depositare il ricorso al Giudice.
Se la conciliazione non va a buon fine, il lavoratore – dopo la redazione e comunicazione del verbale di mancata conciliazione – ha 5 anni di tempo per azionare il proprio diritto all’accertamento della nullità. Ovviamente dovrà farlo tramite un avvocato specializzato in diritto del lavoro.
Cosa succede se il licenziamento viene dichiarato illegittimo?
Se il lavoratore ha diritto ad una “tutela reale” ai sensi dell'articolo 18 dello Statuto del Lavoro, il giudice può decidere in suo favore e:
- obbligare il datore di lavoro a riportare il lavoratore sul posto di lavoro;
- chiedere al datore di lavoro un risarcimento per il danno causato, che corrisponde all'indennità complessiva che il lavoratore avrebbe diritto a ricevere dal giorno del licenziamento fino al suo rientro in azienda; in ogni caso, l'importo da risarcire a titolo di risarcimento danni non può essere inferiore ad un importo pari a cinque mensilità dall'effettiva retribuzione lorda;
- le prestazioni previdenziali e previdenziali a carico del datore di lavoro si intendono per il tempo intercorrente tra il licenziamento e l'assunzione.
Qualora il dipendente non voglia rientrare in azienda, può rifiutare la reintegrazione e chiedere il risarcimento. La decisione deve essere notificata entro 30 giorni dalla sentenza.
Inoltre, se un dipendente richiamato al lavoro a causa di un ordine di reintegrazione non si presenta in azienda entro 30 giorni o non comunica la sua intenzione di scegliere un'indennità, il rapporto di lavoro si considera risolto definitivamente (articolo 18 comma 5, Legge n. 300/1970).
La sanzione può imporre un obbligo alternativo a carico del datore di lavoro (art. 604/66 8), che può scegliere di riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza; oppure corrispondere all'ex dipendente da 2,5 a 6 mesi di compenso (estendibile fino a un massimo di 10 mesi se il dipendente ha lavorato per almeno dieci anni e fino a un massimo di 14 mesi se il dipendente ha lavorato per più di vent'anni). L'importo del risarcimento è determinato dal giudice, in base all'anzianità di servizio, alle dimensioni della società e al comportamento delle parti. A differenza delle aziende di maggiori dimensioni, in materia di tutela legale, la risoluzione – anche se illegale – determina la fine del rapporto. L’indennità alternativa al reintegro è stata introdotta con il D.L. 23/2015.
Tra le illegittimità, ci sono dei licenziamenti che possono essere considerati sempre nulli.
Tra le ipotesi principali vanno certamente annoverate:
- il licenziamento intimato alla lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino (art. 54 d.lgs. 151 del 2001);
- il licenziamento intimato al lavoratore padre, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo e fino al compimento del primo anno di vita del bambino;
- il licenziamento intimato per appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, ovvero per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua, di nazionalità, di età, ovvero legati ad un handicap, all'orientamento sessuale, alle convinzioni personali (art. 15 l. 300 del 1970; art. 3 l. 108/90; art. 4 l. 604/66);
- il licenziamento intimato per rappresaglia o altro motivo illecito (art. 1345 c.c.);
- il licenziamento intimato alla lavoratrice a causa di matrimonio (l. 7 del 1963);
- il licenziamento "simulato" con le dimissioni coartate (nullo ai sensi della legge n. 188/2007).
La relazione turni massacranti – licenziamenti
In realtà, data l’emergenza per i turni massacranti in capo agli operatori sanitari, risulta difficile credere che questi possano essere oltretutto licenziati. Tuttavia, non è impossibile, soprattutto se – per esempio – in preda al burnout qualcuno di loro potrebbe allontanarsi bruscamente dal luogo di lavoro o compiere qualche azione che possa comportare il licenziamento.
In tali casi, è necessario procedere come descritto per il licenziamento “illegittimo” e, in ogni caso, fare richiesta di risarcimento per la vessazione psico-fisica subita.
Di certo, il troppo carico di lavoro dà adito alla possibilità di dimissioni e nonostante lo stress non rientri nelle ipotesi tipizzate nelle quali le dimissioni possono sempre considerarsi per giusta causa (come da circolare INPS) e danno diritto all’indennità sostitutiva del preavviso e alla NASPI, la Corte di Cassazione lo ha ritenuto motivo legittimo.