Ferie non godute, per la CGUE la monetizzazione è ormai consolidata

A pochi mesi dalla sentenza del 18/01/2024, la Corte europea torna nuovamente a tuonare contro l’Italia, confermando la sua contrarietà rispetto a qualsiasi normativa che preveda un divieto assoluto di monetizzazione delle ferie non godute.

Sommario

  1. Cosa ha detto la Corte di Giustizia UE sulle ferie non godute
  2. Il caso del dirigente pubblico e del “no” dell’amministrazione
  3. Gli elementi cruciali del provvedimento
  4. Gli obblighi del datore di lavoro
  5. Quando il lavoratore può perdere il diritto alla monetizzazione?
  6. La normativa italiana al vaglio della Corte
  7. La decisione finale

Dopo la nota pronuncia del 18/01/2024 (C-218/22), che tanto eco mediatico ha ricevuto nel nostro paese malgrado affermasse principi che la Corte andava ripetendo da anni, arriva nel giro di pochi mesi un altro provvedimento della Corte europea (ord. 24/07/24 C-689/22) che – ci si augura – porrà fine ai tentativi, che ancora si registrano da parte di alcune aziende pubbliche, di opporsi al riconoscimento del giusto indennizzo per le ferie non godute, sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 5 della D.L. n. 95/12, ormai definitivamente tramontata.

Tuttora diverse aziende pubbliche, soprattutto nel campo sanitario, fanno pervenire ai loro dipendenti cessati dal servizio che invocano il pagamento dell’indennità, improbabili missive con cui, stringatamente, sostengono che l’art. 5 comma 8 del D.L 95/2012stabilirebbe che le ferie non godute del dipendente pubblico non sono in nessun caso monetizzabili, così inducendo i richiedenti a desistere dalla loro legittima iniziativa. 

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Cosa ha detto la Corte di Giustizia UE sulle ferie non godute

Venendo, però, al caso trattato dalla Corte balza subito in evidenza, a supporto del carattere di definitività dell’orientamento espresso sul tema negli ultimi 10 anni, l’utilizzo dello strumento dettato dall’art. 99 del regolamento di procedura della Corte. Infatti, tutte le volte in cui la questione risulti agevolmente risolvibile sulla scorta dei precedenti già resi, la Corte può decidere con ordinanza motivata: ne consegue che, venendo in rilievo una fattispecie del tutto analoga a quella già risolta con la sentenza del 18 gennaio scorso, si è ritenuto opportuno procedere in tal senso. 

Il caso del dirigente pubblico e del “no” dell’amministrazione

Come nella precedente occasione, la questione trae nuovamente origine dal contenzioso introdotto, davanti al Giudice del lavoro, da un dirigente pubblico che, collocato a riposo, reclamava il pagamento dell’indennità prevista per le ferie maturate, e non godute nel corso del rapporto di lavoro, avendo ricevuto un secco “no” dall’amministrazione motivato dal fatto che, da un canto, la pretesa fosse in contrasto con l’art. 5, comma 8, del d. lgs. n. 95/2012 e, dall’altro, che il dipendente non avesse dimostrato l’esistenza di esigenze di servizio tali da precludergli la possibilità di godere delle ferie annuali.

Il giudice del lavoro, considerando la possibilità di dover disapplicare la normativa interna, riteneva opportuno sospendere il procedimento, rinviando alla Corte la valutazione pregiudiziale circa la corretta interpretazione delle disposizioni dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta e dell’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, rispetto a disposizioni o prassi nazionali che, motivate dall’osservanza dei vincoli di finanza pubblica, prevedano la negazione di qualsiasi compensazione economica per le ferie non godute a favore di dirigenti pubblici al momento della risoluzione del rapporto.

Verificata la sostanziale coincidenza della questione in esame con quella già risolta il 18 gennaio 2024 (C218/22), la Corte ha quindi optato per lo strumento dell’ordinanza, atteso come l’interpretazione di diritto, invocata dal magistrato remittente, potesse essere agevolmente desunta dalla stessa pronuncia resa qualche mese prima.

Gli elementi cruciali del provvedimento

La Corte dunque ha riassunto tutti gli approdi giurisprudenziali ritenuti essenziali per giungere ad un’applicazione della norma interna conforme e coerente con i principi dettati dalla disciplina europea sulla monetizzazione delle ferie non godute. 

  • Il diritto alle ferie annuali retribuite non può essere sottoposto a condizioni 

In principio, si ribadisce che il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve considerarsi fondamentale per il diritto sociale dell’Unione: a ciò non solo non è possibile derogare, ma deve ricevere attuazione solo e soltanto nei limiti indicati dalla direttiva 2003/88.

Questo significa che gli stati membri mantengono una certa autonomia nel definire le modalità di esplicazione del diritto, senza poterlo condizionare al ricorrere di requisiti, che non siano già espressamente previsti dal diritto comunitario.

  • Il diritto alla monetizzazione è parte del diritto alle ferie annuali retribuite 

Il diritto alle ferie annuali costituisce solo una delle due componenti del diritto alle ferie annuali retribuite, dovendosi in questo includere anche il diritto ad ottenere un’indennità finanziaria per i giorni di riposo non fruiti al termine del rapporto di lavoro.

Ciò implica che, quando il rapporto di lavoro è definitivamente cessato, non essendo più possibile fruire del periodo di ferie ormai trascorso, il lavoratore deve perlomeno poter accedere alla sua monetizzazione poiché, in caso contrario, si verrebbe comunque a generare un pregiudizio per il dipendente che, da un canto, non potrebbe più godere del riposo e, dall’altro, non avrebbe neppure il beneficio della compensazione economica.

  • Le condizioni per accedere alla monetizzazione delle ferie non godute

Volendo nuovamente specificare le condizioni per poter reclamare il pagamento dell’indennizzo, la Corte ha precisato come sia richiesta, da un lato, la cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, il mancato godimento delle ferie nel periodo di servizio, senza che sia possibile vincolare il diritto ad ulteriori condizioni non previste dalla normativa europea.

Ne consegue che non ha alcuna rilevanza il motivo per cui il rapporto è cessato, con buona pace dei motivi opposti da alcune amministrazioni statali che, ancora oggi, si ostinano a negare la monetizzazione in caso di dimissioni volontarie del dipendente, di prepensionamento o di congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto.

Gli obblighi del datore di lavoro

Viene nuovamente descritto il perimento dell’obbligo a carico del datore di lavoro che, proprio per il carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite riconosciuto al lavoratore, è tenuto ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che costui sia posto effettivamente in condizione di fruire del periodo di riposo.

Se necessario, dovrà quindi invitarlo formalmente a farlo, e nel contempo informarlo, in modo preciso e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se non ne fruisce, i giorni di ferie andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un’indennità finanziaria.

Quando il lavoratore può perdere il diritto alla monetizzazione?

La perdita del diritto discende unicamente dal fatto che il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si sia effettivamente astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite, dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse, non essendo il datore obbligato ad imporre al lavoratore di esercitare effettivamente quanto previsto a suo favore.

La normativa italiana al vaglio della Corte

Scendendo poi nel dettaglio della normativa italiana, ossia della conformità dell’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012 alla disciplina europea, la Corte ha quindi affermato che il divieto assoluto di monetizzazione, così stabilito per i dipendenti del settore pubblico, si pone chiaramente in contrasto con i principi comunitari, siccome intrepretati dalla giurisprudenza.

Gli obbiettivi sottesi all’adozione della normativa italiana, ossia il contenimento della spesa pubblica e la soddisfazione delle esigenze organizzative proprie dei datori di lavoro pubblici, sono stati ritenuti non sufficienti a giustificare la deroga ai principi comunitari laddove, per il primo, si è rimarcato che la protezione efficace della sicurezza e della salute dei lavoratori non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico.

Con riferimento, invece, all’aspetto organizzativo, seppur astrattamente utile ad incentivare comportamenti virtuosi, purtuttavia non può condurre al risultato, del tutto opposto, di consentire agli stati membri di introdurre una disciplina che ammetta l’estinzione del diritto alle ferie annuali retribuite alla fine del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, qualora il lavoratore non sia stato in grado di fruire delle proprie ferie.

La decisione finale

Alla luce di tutte le argomentazioni che precedono e conformemente alla decisione già adottata sulla medesima questione qualche mese prima, la Corte ha quindi ribadito che l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che essi sono contrari ad una normativa nazionale, come quella richiamata in precedenza, che preveda, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, che il lavoratore di un’amministrazione pubblica che eserciti funzioni dirigenziali non possa in nessun caso beneficiare di un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite maturate e non godute alla data in cui è cessato il rapporto di lavoro a causa del suo collocamento a riposo.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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