Linee guida non aggiornate? Il medico è comunque responsabile in caso di colpa grave

Le linee guida arrivano alla prova del giudizio di responsabilità sanitaria secondo la Corte di Cassazione: il medico non si salva se non adotta l’ultimo ritrovato clinico riconosciuto dalla Comunità internazionale solo perché ancora codificato in una linea guida.

Sommario

  1. Le linee guida per il sanitario: definizione
  2. La differenza fra linee guida, buone pratiche e protocolli
  3. Le linee guida del sanitario previste nella Legge Gelli-Bianco
  4. L’orientamento della Cassazione sulle linee guida per il sanitario
  5. Le linee guida non bastano a salvare il medico

Ogni attività umana ha le sue regole di comune prudenza per cui, traslando questa considerazione nell’ambito delle prestazioni professionali, vien da sé che qualsiasi esercente una attività professionale, soprattutto nel campo sanitario, è chiamato a seguire determinate prassi che, consacrate in vere e proprie metodologie ovvero rimaste soltanto a livello di raccomandazioni, illuminano la condotta da tenere nella gestione dei casi clinici.

Queste prassi, generalmente conosciute come leges artis o linee guida, hanno da sempre rappresentato, non soltanto la stella polare delle professioni, ma anche il paradigma di valutazione della condotta tenuta da un sanitario in una determinata situazione clinica, rappresentando l’aspetto cruciale su cui ruotano le stesse consulenze medico legali, strumento principe di cui il giudice si avvale per giungere alla decisione. 

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Le linee guida per il sanitario: definizione

Per quanto concerne la responsabilità civile, le linee guida possono quindi definirsi, secondo quanto riportato sulla rivista “Pubmed”, come “le raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante processo di revisione sistematica della letteratura e delle opzioni scientifiche, con lo scopo di aiutare i medici ed i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”. 

Sono state altresì definite come le raccomandazioni di comportamento clinico, ad elaborazione multidisciplinare, sviluppate preferibilmente mediante un processo sistematico di revisione della letteratura specifica, allo scopo di assistere i medici ed i pazienti nelle decisioni sulla gestione appropriata di specifiche condizioni cliniche. 

La giurisprudenza (Cass. SS.UU. n. 8770/2018) si è espressa considerandole “un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere a livello di regole vincolanti”. 

In buona sostanza, rappresentano quelle regole di condotta generalmente condivise e quindi osservate dalla comunità scientifica internazionale. 

La differenza fra linee guida, buone pratiche e protocolli

Nella prassi si usa distinguere fra linee guida, raccomandazioni, buone pratiche, protocolli od altri sintagmi simili.

Le linee guida costituiscono, come già detto, le indicazioni di comportamento astrattamente concepite su dati esperienziali (carattere orientativo), alle quali il professionista sanitario non deve supinamente aderire dovendole, di volta in volta, verificare confrontandole con il caso concreto.

A differenza delle linee guida, le buone pratiche sono maggiormente coincidenti con le regole di buon senso clinico, con caratteristiche di sussidiarietà rispetto alle prime.

I protocolli rappresentano invece schemi predefiniti derivati dalle linee guida (e quindi ben più rigidi) di comportamento tecnico-diagnostico, con una maggiore valenza prescrittiva.

L’irrilevanza giuridica della distinzione tra linee guida e altre prassi 

In realtà, tutte queste distinzioni (e le molte altre che sarebbe possibile individuare dalla prassi clinica), pur potendo avere una qualche validità scientifica in ambito di politica sanitaria o scienza dell’amministrazione, non dovrebbero assumere significati particolari quando si debba verificare l’eventuale sussistenza o meno di profili di responsabilità nella condotta dell’esercente la professione sanitaria.

Infatti, una volta stabilito che un certo professionista avrebbe dovuto tenere la “condotta A” e che invece ha tenuto la “condotta B”, il fatto che abbia violato una linea guida, una raccomandazione, un protocollo, una buona pratica o qualsiasi altra regola di comune prudenza - e che da ciò sia dipesa la verificazione di un fatto lesivo con le relative conseguenze pregiudizievoli – dovrebbe essere giuridicamente irrilevante.

Le linee guida del sanitario previste nella Legge Gelli-Bianco

L’art. 5 della legge n. 24/2017 (meglio nota, come legge Gelli) disciplina i criteri di accertamento della colpa sanitaria affermando che il medico deve attenersi, nello svolgimento della sua attività, alle raccomandazioni previste dalle linee guida, peraltro richiamate poco oltre dove si impone al magistrato di tener conto di ciò nella determinazione del risarcimento dovuto al paziente danneggiato. 

La stessa legge, con riferimento alle linee guida, ha inoltre introdotto un articolato sistema di raccolta delle linee guida che, prodotte da soggetti che possiedono specifiche caratteristiche debitamente riconosciute, costituiscono (perlomeno nelle intenzioni del legislatore) il parametro di riferimento dell’attività sanitaria, dal momento che il medico non dovrebbe attenersi a qualsiasi linea guida, ma proprio a quelle inserire nel “Sistema nazionale per le linee guida (SNLG)”. 

Di fatto, questo archivio è però ancora largamente insufficiente, per cui rimane fermo il criterio di valutazione, propriamente dettato dall’art. 1176, comma 2, che impone di mettere in relazione la condotta effettivamente tenuta dal sanitario in un determinato contesto clinico con l’archetipo dell’atteggiamento che, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, avrebbe seguito il sanitario considerato bravo, competente, attento ed aggiornato. 

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L’orientamento della Cassazione sulle linee guida per il sanitario

Tornando così alle linee guida, giova allora osservare come, di recente, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione sia nuovamente intervenuta per fissare alcuni criteri circa la valenza delle linee guida in ambito sanitario (generalmente indicate con il termine soft law), stabilendo che la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave, così come descritta dall’art. 2236 c.c., non opera nelle ipotesi di imprudenza (Cass. n. 34516/2023). 

Ciò sta quindi a significare che in questi casi, ossia quando la condotta sia tacciata di imprudenza, a nulla rileva che la stessa risulti astrattamente conforme alla tecnica descritta nelle linee guida. 

Inoltre, è stato precisato – e ciò risulta particolarmente rilevante per sgombrare il campo da fuorvianti e pericolose derive applicative – che le linee guida non hanno rilevanza normativa, non essendo né tassative né scriminanti, mentre il medico rimane sempre e comunque libero di optare per altra soluzione clinica, ritenendola preferibile per la salute del paziente. 

Rappresentano quindi un paradigma di riferimento utile per la valutazione della condotta colposa del sanitario, ma ciò non significa che il magistrato potrà limitarsi esclusivamente alla verifica di questo solo parametro, essendo libero di apprezzare se le circostanze del caso concreto non suggeriscano un atteggiamento clinico diverso rispetto a quello prescritto dalle linee guida. 

Le linee guida non bastano a salvare il medico

Nel risolvere la fattispecie giunta alla sua valutazione, la Corte ha dunque considerato colpevole la condotta di quei medici che, nell’eseguire un intervento chirurgico di particolare difficoltà, avevano omesso di adottare una tecnica chirurgica che, in quel momento, non era stata ancora codificata in una linea guida, ma risultava già ampiamente conosciuta dalla comunità scientifica di settore.

Come si vede, il costante aggiornamento delle novità emergenti dal continuo sviluppo di metodiche e cliniche assistenziali diventa sempre più urgente sia perché consente di garantire la migliore prestazione sanitaria possibile al paziente, sia perché va a costituire quel bagaglio di informazioni utili al magistrato quando si trovi a verificare, nel corso di un giudizio, la correttezza della condotta tenuta dal sanitario in un caso concreto.

Non sapere, non rimanere costantemente aggiornarti od ancora peggio pensare di potersi “trincerare” sul fatto che una determinata tecnica o metodica, che avrebbe ottenuto al paziente un risultato purchessia favorevole rispetto a quello concretamente ricevuto, non rientrava fra le linee guida “pubblicate” o riconosciute da un determinato e circoscritto ambito territoriale, potrebbe risultare alquanto pericoloso, laddove l’evoluzione accolta dalla comunità scientifica internazionale fosse stata (come ovvio che sia) più veloce nell’ideazione di una pratica clinica rispetto al successivo processo di creazione e conseguente catalogazione nella relativa linea guida. 

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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