Responsabilità professionale sanitaria: la formazione conta più della specializzazione

Per scagionarsi dalla colpa medica non basta affermare di non possedere la specializzazione inerente il trattamento praticato. Vediamo il caso del ginecologo e la decisione della Corte di Cassazione.

Sommario

  1. Colpa medica: paziente deceduta per mancato approfondimento dei sanitari
  2. La decisione della Corte
  3. Colpa medica: è decisiva la formazione continua

Con la sentenza n. 17410/2023, la Corte di Cassazione ha rimarcato come sia sempre onere del sanitario che si assuma la responsabilità di eseguire un esame diagnostico, leggere e interpretare correttamente le immagini scaturite, senza che l’assenza della prevista specializzazione possa assumere rilevanza per sostenere la mancanza di colpa dovendo, nella consapevolezza dei propri limiti di competenza e della indisponibilità di ulteriori strumenti di indagine, indirizzare il paziente presso altre strutture che possano affrontare tempestivamente eventuali criticità diagnostiche.

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Colpa medica: paziente deceduta per mancato approfondimento dei sanitari

La questione sottoposta all’esame della Corte di Cassazione prende le mosse dalla richiesta di risarcimento presentata dagli eredi di una paziente nei confronti delle strutture sanitarie e dei medici che, a vario titolo, l’avevano avuta in cura, provocandone il decesso per effetto di molteplici condotte, anche omissive, ritenute gravemente imperite e negligenti.

Nello specifico, si assumeva che, a seguito dell’accesso al P.S. per forti dolori addominali, l’interessata era stava visitata e conseguentemente dimessa senza alcun ulteriore approfondimento diagnostico, di modo che, dopo essersi recata presso il proprio medico di base che gli aveva prescritto una terapia antispastica in caso di necessità, aveva fatto successivamente ricorso al suo ginecologo di fiducia, che la sottoponeva ad un esame ecografico, da cui emergeva la presenza di una cisti liquida, oltre ad alcune complicanze a carico delle strutture ovariche, per le quali si consigliava il ricovero.

Il giorno dopo, la paziente si recava nuovamente presso il medesimo presidio ospedaliero, ove veniva ricoverata d’urgenza, con diagnosi di addome acuto, cui seguiva intervento chirurgico con successivo ricovero in rianimazione, dove sopravveniva il decesso per “sindrome da disfunzione multiorgano da sindrome compartimentale addominale secondaria a shock tossinfettivo irreversibile insorta come complicanza di un intervento chirurgico tardivo per volvolo intestinale in quadro clinico già compromesso da una ileocolite con megacolon tossico”.

Alla luce di quanto sopra, gli eredi ritenevano il decesso addebitabile ad una concorrente serie di condotte imputabili, sia a titolo di negligenza che in taluni casi di imperizia, sia ai professionisti che avevano gestito le fasi antecedenti il ricovero, per non aver tempestivamente individuato la diagnosi corretta, sia dei sanitari che avevano poi eseguito l’intervento e le connesse prestazioni ospedaliere, invocando il ristoro di tutti i danni patiti per la perdita della loro congiunta.

La domanda veniva accolta sia in primo che in appello con la specifica, relativamente alla condotta del ginecologo di fiducia (che è poi ricorso in cassazione), per cui quest’ultimo avrebbe omesso di annotare l’urgenza del ricovero, neppure evidenziata alla paziente in sede di visita, nonché commesso un ulteriore errore in sede di refertazione ecografica, laddove indicava come formazioni anecogene le immagini riferite con tutta probabilità ad anse intestinali dilatate e fisse alla parete addominale.

I motivi di ricorso contro il ginecologo

In estrema sintesi, le critiche portate dalla difesa del ginecologo ricorrente ruotavano sull’aspetto relativo all’affermato errore di lettura dell’esame ecografico, da cui sarebbe poi scaturito il ritardo diagnostico, non avendo la Corte di Appello spiegato le ragioni per cui anche un ginecologo, non avendo le competenze di internista, avrebbe dovuto individuare l’urgenza del ricovero, peraltro rilevata in sede ospedaliera soltanto al secondo accesso e dopo plurimi approfondimenti strumentali.

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La decisione della Corte

Entrando direttamente sulla questione della specializzazione medica rivestita dal professionista ricorrente, ginecologo e non internista, la Corte ha motivato il suo dissenso rispetto alle censure congiuntamente esaminate, osservando che nell’eseguire l’ecografia addominale incriminata costui ha assunto direttamente la responsabilità di interpretare correttamente le immagini scaturite per cui, anche laddove avesse ritenuto di non possedere tutte le competenze necessarie ovvero la strumentazione adeguata al caso, avrebbe mantenuto comunque la responsabilità di “correlare quelle stesse immagini a dubbi, infatti, variamente insorti – e la cui presa in considerazione non può che far parte del bagaglio professionale del medico – in uno alla significativa e specifica anamnesi nel caso già emersa e persistente”.

Questo contegno professionale, rientrante nelle competenze di qualsiasi medico, avrebbe perlomeno consentito di inviare la paziente immediatamente presso strutture idonee a risolvere il dubbio diagnostico, approntando tempestivamente le cure più idonee alla risoluzione del caso.

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Colpa medica: è decisiva la formazione continua

Netta allora la presa di posizione della Corte che non ha inteso, in alcun modo, avallare tesi argomentative da cui possano, in qualche modo, discendere giudizi di esclusione da responsabilità per imperizia ed imprudenza per quel professionista che, titolare di altra specializzazione, abbia comunque eseguito un esame diagnostico, refertandolo in modo erroneo e senza indirizzare il paziente ai necessari approfondimenti.

Consentire ad un sanitario che, privo della specializzazione (e quindi della relativa formazione) congrua rispetto all’esame diagnostico praticato, di scagionarsi dall’errore commesso, assumendo di non avere tutte le competenze necessarie, porterebbe infatti ad un inaccettabile vuoto di tutela per il paziente, che in tal modo non potrebbe ottenere, in caso di errore, il ristoro del danno provocato dal ritardo diagnostico.

Diventa dunque decisivo, sia sotto un profilo professionale che conseguentemente giuridico, che tutte le volte in cui si decide di praticare un approfondimento strumentale, estraneo alla specificità delle competenze proprie della specializzazione rivestita, procedere ad un’adeguata formazione rispetto all’uso dello strumento ed all’interpretazione dei suoi risultati, che non solo consenta di condurlo in modo adeguato e perito, ma anche di suggerire la soluzione migliore e più rapida per risolvere eventuali dubbi diagnostici che dovessero insorgere nella pratica.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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