Responsabilità professionale, l’anestesista non si salva dal giudizio anche se si trovava in altro reparto

L’anestesista di turno notturno ed impegnato in terapia intensiva non si salva dal giudizio di responsabilità per la morte della paziente ricoverata in ortopedia.

Sommario

  1. Turno di notte per anestesista in altro reparto: paziente si aggrava e muore
  2. Il ricorso in Cassazione
  3. Il ragionamento della Corte sul caso dell’anestesista
  4. La decisione della Cassazione

Sempre più spesso i medici ospedalieri vengono dirottati, nell’ambito di vere e proprie riorganizzazioni interne dell’azienda ovvero per esigenze estemporanee dovute alla necessità di coprire carenze di personale, presso reparti diversi da quello di propria competenza, talvolta a ricoprire ruoli neppure compatibili con la specializzazione posseduta, oppure risultano impegnati (soprattutto di notte e nei festivi) contemporaneamente su più reparti, moltiplicandosi in modo esponenziale i possibili rischi di coinvolgimento in un giudizio di responsabilità.

La Cassazione si è recentemente occupata (ord. n. 25772/2023) di un caso del genere, giungendo ad affermare che la responsabilità del medico non può essere esclusa unicamente perché addetto ad un reparto diverso e che il paziente non gli fosse stato affidato, atteso come la diligenza del suo operato debba essere sempre valutata non secondo il suo mansionario, ma in relazione alla condotta concretamente tenuta, ponendo a raffronto le indicazioni fornite rispetto a quelle suggerite dalle leges artis ed esigibili nel caso concreto.

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Turno di notte per anestesista in altro reparto: paziente si aggrava e muore

La controversia trae origine dalla richiesta di risarcimento presentata dagli eredi di una paziente che, ricoveratasi presso una struttura sanitaria, decedeva a seguito di alcune complicazioni insorte dopo un intervento di riduzione d'una frattura femorale.

Veniva quindi dedotta la responsabilità, oltre che della clinica, anche dei singoli sanitari coinvolti nell’intervento, per aver praticato un’operazione controindicata rispetto alle condizioni di salute della degente, e dell’anestesista, di turno la notte dell’aggravamento dello stato clinico, per non aver adeguatamente controllato il decorso post-operatorio.

In primo grado, il Tribunale accolse la domanda nei confronti della struttura sanitaria e del chirurgo, escludendola invece nei riguardi dell’altro sanitario e dell’anestesista, parimenti coinvolti.

Impugnata la decisione nei loro confronti, la Corte di Appello confermava la decisione di prime cure ritenendola corretta per quanto concerne la posizione dell’anestesista, sul presupposto che, premessa la distinzione fra "medico curante" e "medico consulente", soltanto il primo può stabilire se e quali terapie adottare, mentre l’anestesista, di guardia la notte in cui le condizioni della paziente si aggravarono, non poteva ritenersi responsabile della gestione della degente.

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Il ricorso in Cassazione

La sentenza veniva ancora impugnata in sede di legittimità, censurando specificatamente l’aspetto del mancato riconoscimento della responsabilità del medico anestesista nel decesso della paziente.

Nello specifico, si affermava che, trattandosi del medico in servizio al momento in cui si manifestarono i primi sintomi dell’aggravamento delle condizioni della paziente (alterazione dei valori INR e Hb), costui avesse ricevuto dagli infermieri del reparto di ortopedia congrue informazioni circa la situazione, senza però dare indicazioni specifiche, né acquisire ulteriori elementi, né tantomeno seguire il decorso successivo.

Questa condotta era stata considerata dalla Corte d'Appello insufficiente a determinare la colpa del sanitario, dal momento che "non era il medico curante, ma solo il medico consulente", ed oltretutto si trattava di anestesista, già in servizio presso il reparto di terapia intensiva e quindi verosimilmente assorbito da altre urgenze.

Il ragionamento della Corte sul caso dell’anestesista

Nell’accogliere il motivo di ricorso, la Corte ha iniziato il suo percorso logico prendendo le mosse dalle affermazioni contenute nella relazione medico legale depositata agli atti che, nell’escludere il coinvolgimento dell’anestesista, aveva ritenuto che, essendo di guardia nel reparto di rianimazione, poco sapesse della paziente, e che, in ogni caso, non era il responsabile della gestione della stessa, ricoverata nel diverso reparto di ortopedia, per cui non poteva gravare su di lui l'obbligo di prescrivere le terapie e di monitorare la degenza della stessa.

Entrambe queste affermazioni, riprese dal collegio in appello a sostegno della sentenza di rigetto della domanda nei confronti del medico anestesista, sono state considerate erronee dalla Cassazione.

Nel primo caso, si è ritenuta contraria al consolidato orientamento formatosi sull’art. 1176 c.c. che impone al magistrato di ritenere colposa la condotta del professionista che ha tenuto una condotta diversa da quella che, nelle medesime circostanze concrete, avrebbe tenuto un professionista “serio e preparato”.

Per comprendere ciò, la Corte ha quindi illustrato nello specifico i tre passaggi che devono essere seguiti in giudizio, per cui occorre:

  1. stabilire quale condotta avrebbe dovuto teoricamente tenere un professionista diligente;
  2. accertare quale condotta fu concretamente tenuta;
  3. valutare se lo scarto, eventualmente accertato, tra la condotta sub (a) e la condotta sub (b) sia dovuto a imperizia, imprudenza o negligenza, oppure sia giustificato da circostanze peculiari.

Ebbene, su tali presupposti, si è quindi apprezzato che, in appello, si era esclusa la corresponsabilità dell’anestesista in quanto, di turno nel reparto di terapia intensiva, non aveva partecipato all'intervento chirurgico, per cui non poteva avere un quadro completo delle condizioni della paziente.

Quel che conta è però la condotta concretamente tenuta dall’anestesista rispetto a quella esigibile dall’archetipo di medico bravo e diligente, a nulla rilevando il fatto che poco sapesse della situazione concreta.

In poche parole, il giudizio avrebbe dovuto preliminarmente rispondere alla domanda per cui, a fronte della condotta concretamente tenuta dall’anestesista nei frangenti descritti, quale sarebbe dovuto essere l’atteggiamento che, secondo le leges artis, un qualunque medico specialista in anestesia, informato del peggioramento dei parametri di coagulazione (INR) e di concentrazione di emoglobina (Hb), in una paziente avanti negli anni e sottoposta a recente intervento chirurgico, avrebbe verosimilmente tenuto?

Anche la seconda affermazione, ossia che l’anestesista non era il medico curante e quindi non incombeva su di lui prescrivere le opportune terapie, è stata considerata erronea, dal momento che l’attività del medico risponde sempre a criteri di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.).

Ciò significa che il professionista è tenuto ad eseguire sia le prestazioni a sé spettanti, ma anche quelle che si rendessero necessarie per gestire una situazione di emergenza, od evitare un pericolo, nei limiti delle proprie competenze e comunque nell’ambito di un apprezzabile sacrificio.

Trattandosi, allora, di una condotta omissiva, occorre quindi valutare se quella prestazione, che nel concreto non è stata fatta, era effettivamente richiedibile al professionista serio e preparato.

Calando questi principi nel caso concreto, la Corte ha dunque affermato che, davanti ad un corredo sintomatologico ingravescente, il medico di turno (soprattutto se notturno o festivo) è in colpa se non segue l’evolversi della situazione, oppure se si limita a fornire agli altri operatori sanitari indicazioni generiche senza poi apprezzarne gli effetti, anche al fine di modificare la terapia.

Non importa, allora, che non sia il medico curante, né tantomeno che sia addetto ad un reparto diverso da quello dove è ricoverati il paziente, dovendosi invece apprezzare nel concreto:

  1. se le decisioni adottate e le indicazioni fornite in quel frangente siano coerenti col quadro sintomatico del paziente;
  2. se il quadro necessita di indagini più approfondite, ovvero di misure più tempestive;
  3. se una prestazione diversa e più efficace prestazione è effettivamente esigibile dal medico anestesista, avuto riguardo in concreto alle sue competenze professionali ed ai concomitanti impegni professionali.

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La decisione della Cassazione

Accolto così il motivo di censura mosso alla motivazione della sentenza impugnata, la Cassazione ha quindi rimesso la decisione alla Corte di Appello in diversa composizione affermando i seguenti principio a cui dovrà attenersi: 

  1. “la responsabilità del medico deve essere accertata in concreto ed ex post in base alla condotta tenuta, e non in astratto ed ex ante in base al suo mansionario. Ne consegue che la responsabilità del medico di turno notturno, per negligente assistenza d'un paziente ospedalizzato, non può essere esclusa per il solo fatto che quel medico fosse addetto ad un reparto diverso da quello ove era ricoverato il paziente; né per il solo fatto che quel medico non fosse quegli cui era stato affidato il paziente";
  2. "la colpa del medico di turno, per negligente assistenza d'un paziente ospedalizzato, va valutata comparando le istruzioni terapeutiche concretamente impartite dal sanitario, con quelle suggerite dalle leges artis, e concretamente da lui esigibili, avuto riguardo alle specializzazioni possedute ed alle circostanze del caso concreto"; 
  3. "l'art. 1218 c.c., e l'inversione dell'onere della prova in esso prevista, non s'applica al giudizio di accertamento del riparto della corresponsabilità tra più coobbligati, proposto dall'assicuratore di uno di essi nei confronti degli altri".
Di: Francesco Del Rio, avvocato

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