Errore nella somministrazione di un farmaco e responsabilità dell'attività d'equipe

Un caso di responsabilità professionale che coinvolge un medico, uno specializzando e un'infermiera. La dose errata di un farmaco oncologico si rivela fatale per la paziente T: com'è stata gestita la vicenda?

Sommario

  1. La normativa di riferimento
  2. Il rispetto delle linee guida
  3. La decisione finale

La signora T., affetta da linfoma di Hodgkin, deve sottoporsi a chemioterapia presso la locale Azienda Ospedaliera. Il giorno concordato per una delle somministrazioni programmate, si reca in ospedale per effettuare il trattamento chemioterapico del farmaco Vinbalstina in un dosaggio di 9 mg. La somministrazione viene effettuata presso il reparto di oncologia, dove in quel momento operano il dottor C. quale primario e il dottor S. quale medico volontario, già specializzato in oncologia, che in quel momento frequentava il reparto quale specializzando in patologia clinica. 

Il primario, dottor C., una volta verificati i parametri della paziente, ordina al medico volontario, dottor S., di occuparsi della somministrazione della chemioterapia attenendosi scrupolosamente al piano terapeutico da lui prescritto, come già avvenuto in passato. Il dottor S. sbaglia a trascrivere sulla cartella clinica di T. la dose di farmaco indicata nel piano terapeutico: scrive 90 mg di Vinbalstina anziché i 9 indicati nel piano terapeutico dal dottor C.

L'infermiera del reparto, dato che il farmaco disponibile in reparto era insufficiente e bisognava prenderlo in farmacia ospedaliera, chiede e ottiene dal dottor S. conferma della dose, che viene perciò somministrata a T. L'abnorme dosaggio di Vinbalstina ha provocato in T. una condizione di tossicità sistemica da cui è scaturito il decesso per arresto cardiaco. Una volta avvenuto il fatto, il dottor S. corregge la cartella clinica, cancellando il numero 0 (zero) dopo il 9 (nove), in modo da far apparire che la dose somministrata fosse corretta.

La normativa di riferimento

La legge n. 24/2017(legge Gelli-Bianco), stabilisce che il professionista sanitario deve attenersi, nell'esercizio dell'attività medica, alle raccomandazioni previste nelle linee guida pubblicate da istituzioni pubbliche e private, da società scientifiche e associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in un apposito elenco regolamentato dal Ministero della salute e aggiornato ogni due anni. In mancanza delle raccomandazioni previste nelle linee guida, l'esercente la professione sanitaria deve attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali. Le linee guida e i successivi aggiornamenti vengono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), disciplinato e gestito dal Ministero della Salute. 

Sotto il profilo della responsabilità medica, la legge Gelli-Bianco ha introdotto una nuova norma all'interno del codice penale, l'art. 590 sexies, che disciplina espressamente la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. In virtù di tali disposizioni, se la morte o le lesioni sono conseguenza dell'esercizio della professione sanitaria, qualora l'evento si verifichi a causa di imperizia, la punibilità del professionista sanitario è esclusa quando vengono rispettate le cosiddette linee guida o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni ivi previste siano adeguate al caso concreto e alle sue specificità.

Tra i casi di colpa grave rientra, per quel che rileva nel caso di specie, quello dell'imperizia, che può definirsi come il comportamento – attivo o omissivo – del sanitario che si ponga in contrasto con le regole tecniche della specifica attività che egli è chiamato a svolgere. Nello specifico, ci troviamo ad affrontare il tema della responsabilità di una equipe medica, costituita dall'infermiere professionale, dallo specializzando dottor S. e dal primario dottor C.

Il rispetto delle linee guida

L'accusa mossa dalla procura ai medici e all'infermiera si fonda sul presunto mancato rispetto delle linee guida, che prescriverebbero che l'infermiere specializzato deve rivolgersi, per la somministrazione della chemioterapia, esclusivamente allo strutturato, non anche a un eventuale medico volontario. In realtà, tale aspetto viene considerato irrilevante ai fini della condanna, poiché non si rinviene alcun obbligo del genere né nelle linee guida né in eventuali buone prassi proprie della professione di infermiere e relative, nello specifico, alla preparazione e somministrazione dei farmaci nel caso in cui si renda necessaria la verifica dei dosaggi e delle modalità di allestimento attraverso il confronto con il personale medico.

Nel corso del processo emerge, tuttavia, l'evidente disorganizzazione del reparto di oncologia in cui operano i sanitari imputati, caratterizzato da silenzi e connivenze. In tale contesto, il dottor S. opera, di fatto, come il “braccio destro” del primario, svolgendo attività che, per il ruolo di medico volontario specializzando, in realtà non gli competevano, quali ad esempio prendere in cura personalmente i pazienti, eseguire visite e terapie, “mettere mano” alle cartelle cliniche. 

All'interno del reparto di oncologia la parola dello specializzando equivaleva a quello del primario; per questo, una volta ottenuti da lui i chiarimenti circa le modalità e le quantità di terapia da eseguire su T., l'infermiere professionale ha logicamente ritenuto rassicuranti le conferme ricevute dal dottor S. in merito al quantitativo di farmaco da somministrare alla povera T.

Il dottor S., invece, dal canto suo, ha agito in spregio alle prescrizioni più elementari delle linee guida: egli, nonostante fosse privo di ogni conoscenza in materia di cura del tumore liquido (come il linfoma di Hodgkin), procede, sotto ordine del primario a compilare la cartella di T., commettendo l'errore nell'indicazione del dosaggio del farmaco che poi ne ha cagionato la morte. Tale condotta è apparsa ai giudici come superficiale e leggera, idonea a determinare la morte della paziente.

Estremamente grave è, poi, la condotta del primario dottor Caio, il quale, contravvenendo ai suoi doveri di controllo professionale sulle attività dei sottoposti, dei quali era responsabile e garante a livello giuridico, ha sostanzialmente contribuito in maniera rilevante al decesso della paziente. Il dottor Caio, ha dimostrato imperizia, anzitutto nel momento in cui ha disatteso una circolare interna che prescriveva che la somministrazione della terapia ai pazienti affetti da Linfoma di Hodgkin doveva avvenire presso il reparto di ematologia anziché quello di oncologia.

Quando si parla di responsabilità d'equipe, dove più professionisti sanitari cooperano mettendo a disposizione le proprie diverse professionalità, anche non contestualmente a livello temporale – come accaduto nel caso in esame – il sanitario non può invocare il principio dell'affidamento nella correttezza e regolarità della condotta del medico che lo ha preceduto. In parole povere, il medico che interviene su un paziente deve effettuare tutti i controlli necessari per verificare la correttezza di quanto i professionisti che sono intervenuti prima di lui hanno prescritto/somministrato al paziente.

Con specifico riferimento al medico specializzando (il dottor S.), questi è titolare di una vera e propria posizione di garanzia in relazione alle attività che ha compiuto personalmente sulla base delle direttive impartitegli dal medico che svolge le funzioni di suo tutor (il dottor C.), il quale ha l'obbligo di controllare le attività svolte dallo specializzando e verificarne i risultati. La responsabilità va comunque valutata in relazione al caso concreto, tenendo conto del fatto che lo specializzando deve rifiutare compiti che non ritiene di essere in grado di compiere, poiché in caso contrario se ne assume la responsabilità (si parla della cosiddetta colpa per assunzione).

La decisione finale

In virtù di quanto sopra, il medico specializzando dr. S. è stato ritenuto responsabile per il reato di omicidio colposo della signora T., poiché nonostante fosse sfornito delle più elementari conoscenze sulla terapia oncologica da praticare alla paziente e fosse privo di adeguata preparazione, nel caso in esame il fatto di aver trascritto in maniera errata la dose del farmaco da somministrare sulla cartella clinica ha avviato tutta la serie di errori successivi che hanno poi portato alla morte di T., verificatasi a causa della somministrazione di una dose sbagliata – eccessiva – del farmaco che avrebbe dovuto curarla.

Di: Manuela Calautti, avvocato

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