Infermiere somministra a un paziente molesto un sedativo che lo uccide: il caso

Un infermiere ha somministrato un sedativo ad un paziente molesto, che ha finito per ucciderlo. Cosa succede in questo caso e come si è espressa la giurisprudenza?

Sommario

  1. La normativa violata
  2. Dolo e colpa
  3. Come è andata a finire: processo da rifare per la quarta volta

Il signor T. svolge l'attività di infermiere presso l'Ospedale cittadino, e all'interno del suo reparto si trova ricoverato il signor C., affidato alle sue cure professionali. Un pomeriggio a inizio turno T., nel parlare con S. (tirocinante in servizio presso il suo reparto) le dice di non avere intenzione di passare un pomeriggio come quello del giorno precedente, durante il quale C. era stato molto agitato e difficile da gestire. Subito dopo, T. inietta nella flebo di C. una siringa da 10 ml, che ha poi mandato a goccia vigorosa, con circa 1 o 2 gocce al secondo. T. con la siringa aveva iniettato un ansiolitico, un farmaco che non era prescritto nella cartella clinica di C. Questo farmaco appartiene alla categoria delle benzodiazepine, e agisce sul sistema nervoso centrale inducendo sonnolenza, rilassamento muscolare e riducendo l'ansia. Tra gli effetti collaterali di questo principio attivo vi sono gravi problemi respiratori, vista appannata, alterazione della pressione sanguigna e del battito cardiaco; inoltre, l'assunzione di questo farmaco in associazione con altri deve avvenire esclusivamente previo parere di un medico.

Dopo circa quindici minuti dall'infusione C. era soporoso e in evidente stato di sedazione. Alle ore 15:30, tuttavia, il colorito di C. era diventato dapprima giallognolo e successivamente grigio, mentre il respiro si faceva prima affannoso e poi sempre più sibilante, come un fischio. L’infermiere T., resosi conto che C. sta avendo un arresto cardiaco, inizia a usare il defibrillatore per rianimarlo e chiama in soccorso altri infermieri; sopraggiunge anche un medico anestesista che si trovava in reparto per una consulenza, e inizia a praticare le manovre rianimatorie sul paziente, purtroppo inutilmente, perché C. si spegne poco dopo.

Dopo il decesso di C., T. chiede a S. di modificare la cartella infermieristica, aggiungendo a penna alla scritta “1” la frazione “/2”, in modo da documentare che anziché una fiala intera ne era stata somministrata mezza.

A seguito del decesso di C. viene aperta un'inchiesta giudiziaria per accertarne le cause della morte. Dall'autopsia emerge che il farmaco ansiolitico, somministrato da T. di propria iniziativa senza alcun parere medico, in associazione con la terapia farmacologica già in atto su Caio, è stata la causa, o quantomeno la concausa, della morte dell'uomo. Dalla cartella clinica non emergono, infatti, elementi che facciano desumere che il paziente potesse avere un peggioramento tanto repentino da avere un esito infausto. Tizio viene quindi rinviato a giudizio sia per l'omicidio di Caio che per averne falsificato la cartella clinica.

La normativa violata

L’infermiere T. è accusato di aver commesso due reati:

  1. omicidio del paziente C., punito ai sensi dell'art. 575 del codice penale,
  2. falso in atto pubblico, per aver falsificato la cartella clinica del paziente, ai sensi dell'art. 476 del codice penale.

La collettività ripone fiducia negli atti pubblici, perché sono redatti da pubblici ufficiali, cioè soggetti che garantiscono la veridicità di quello che vi si trova scritto: la falsificazione di una cartella clinica rappresenta un reato contro la fede pubblica, punito con la reclusione da un minimo di uno a un massimo di sei anni.

L'omicidio, invece, è forse uno dei reati più gravi puniti nell'ordinamento italiano, perché va a ledere la persona, la vita e l'incolumità individuale; per chiunque cagiona la morte di un uomo, l'art. 575 del codice penale prevede una pena minima di ventuno anni di reclusione, che possono arrivare all'ergastolo se il fatto è commesso per motivi abietti o futili, se il reato è commesso per nasconderne un altro, ovvero se il soggetto ha agito – in caso di colpa – nonostante la previsione dell'evento.

La vicenda che vede imputato T. ruota proprio intorno al fatto che lui abbia agito prevedendo le possibili conseguenze della sua condotta; i giuristi, in casi come questo, discutono del labile confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente.

Dolo e colpa

In generale, differenza tra il dolo e la colpa, è contenuta nell'art. 43 del codice penale: il reato si definisce doloso (o secondo l'intenzione) quando il soggetto che lo compie ha previsto e voluto quel determinato evento come conseguenza della propria condotta; il delitto è invece colposo (o contro l'intenzione) quando il soggetto non voleva che dalla sua condotta derivassero quelle conseguenze, che si sono verificate a causa di negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di leggi/regolamenti/ordini/discipline.

In parole povere, si ha dolo quando un soggetto prende un coltello per affondarlo nel petto di un altro soggetto con lo scopo di ucciderlo: in questo caso, il reo ha previsto e voluto che la morte della sua vittima fosse la diretta conseguenza della propria condotta.

L'esempio classico di omicidio colposo, invece, è quello derivante da un errore medico: il sanitario, infatti, quando opera su un paziente per soccorrerlo non vuole certo provocarne la morte; se questa però sopraggiunge per un suo errore dovuto a imprudenza, imperizia, inosservanza delle linee guida, si parla di colpa.

La differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente è da sempre al centro del dibattito tra i giuristi: l'interpretazione più chiara del confine tra questi due elementi soggettivi del reato è stata fornita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la famosa sentenza Thyssenkrup, riguardante il gravissimo rogo alle acciaierie di Torino avvenuto molti anni fa, che provocò la morte sul lavoro di ben sette operai.

Il dolo eventuale

Si parla di dolo eventuale quando il soggetto che commette il reato si immagina che dalla sua condotta possano derivare le conseguenze delittuose (ad esempio la morte di un uomo), e accetta il rischio che questo si verifichi. Con la colpa cosciente, invece, il soggetto che commette il reato, al momento in cui immagina le conseguenze nefaste che potrebbero derivare dal suo agire, confida che le stesse non si verificheranno. Si tratta, ovviamente, di una spiegazione non tecnica, per far comprendere al non giurista di cosa stiamo parlando.

Con la sentenza Thyssenkrup le Sezioni Unite hanno precisato che per avere dolo eventuale bisogna dimostrare che il soggetto che ha agito si sia rappresentato e confrontato con quello specifico determinato evento che si è verificato in concreto, e ha dettato una serie di criteri che gli inquirenti devono seguire per accertare se ci si trovi di fronte a un'ipotesi di dolo eventuale:

a) lontananza della condotta tenuta rispetto a quella doverosa;

b) personalità e pregresse esperienze dell'agente;

c) durata e ripetizione dell'azione;

d) comportamento successivo al fatto;

e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali;

f) la probabilità di verificazione dell'evento;

g) le conseguenze negative, anche per l'autore in caso di sua verificazione;

h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle prove raccolte, che l'agente non si sarebbe trattenuto dal compiere la condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento.

Durante il processo a carico di T., perciò, i giudici hanno dovuto verificare in concreto la sussistenza o meno di questi parametri, per distinguere se la sua condotta sia stata dolosa o colposa e riconducibile alle categorie alternative del dolo eventuale o della colpa cosciente: questa distinzione è basilare per determinare, in caso di condanna, la pena da infliggere, che sarà maggiore in caso di dolo, inferiore nell'ipotesi di colpa.

Come è andata a finire: processo da rifare per la quarta volta

In primo grado il GIP ha ritenuto che la condotta di T. fosse riconducibile alla colpa cosciente: secondo i magistrati T. non voleva cagionare la morte di C. e neanche aveva lontanamente immaginato che somministrare l'ansiolitico, in associazione con la terapia farmacologica già in essere sul paziente, ne avrebbe determinato la morte, per come accertato in seguito all'autopsia. La condanna inflitta in primo grado è stata di complessivi cinque anni e otto mesi di reclusione, suddivisi in tre anni e quattro mesi per l'omicidio, due anni e quattro mesi per la falsificazione della cartella clinica.

La procura, naturalmente, ha appellato la sentenza, sostenendo che la condotta di T. fosse da ricondurre all'interno del dolo eventuale, chiedendo conseguentemente l'innalzamento della pena inflitta in primo grado. La Corte d'appello, applicando i parametri dettati dalla sentenza Thyssenkrup, ha ritenuto che la condotta di T. sia lontana dalla condotta standard che un infermiere avrebbe normalmente tenuto: T., infatti, è andato oltre quelle che sono le sue competenze e le sue attività di infermiere, somministrando a C. un farmaco non prescritto, che ha causato una significativa limitazione funzionale del suo organismo. Con questa condotta, secondo la Corte d'appello, ha agito agli antipodi rispetto alla posizione di garanzia della salute del paziente che normalmente ricopre un operatore sanitario. Durante il processo è stato accertato, con riferimento alla personalità e alle precedenti esperienze dell'imputato, che T. non era nuovo alla somministrazione di forti tranquillanti ai pazienti più difficili da gestire, per trascorrere dei turni in reparto tranquilli. Per la Corte d'appello, ai fini della determinazione della sussistenza del dolo eventuale, è importante tenere conto anche della durata della condotta, poiché T. avrebbe avuto ben un'ora di tempo per riferire ai rianimatori di aver somministrato a C. il midazolam; se lo avesse fatto, i soccorritori avrebbero potuto facilmente sommistrare la giusta terapia per tentare di salvare l'uomo e scongiurarne il decesso.

Applicando questi parametri e ritenendo sussistente il dolo eventuale, la Corte d'appello ha condannato T. alla pena di quattordici anni e quattro mesi di reclusione, di gran lunga superiore rispetto a quella inflitta in primo grado.

T., naturalmente, ha impugnato la sentenza d'appello presentando ricorso per Cassazione, insistendo per la sua assoluzione (molto improbabile dato il materiale probatorio a suo carico raccolto) o in alternativa per una consistente riduzione della pena inflitta. La Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudizio della Corte d'appello sia da modificare, perché non fa una corretta applicazione dei parametri per la determinazione della sussistenza del dolo eventuale. Secondo la Cassazione dall'autopsia non emerge alcun elemento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l'eventuale somministrazione a Caio del farmaco antagonista dell'ansiolitico lo avrebbe salvato. Non è stato inoltre dimostrato che Tizio fosse consapevole che il suo silenzio, durante le attività di rianimazione, sul farmaco somministrato a Caio potesse causare il decesso dell'uomo a causa del mancato utilizzo di un eventuale antidoto.

Durante il giudizio in Cassazione è crollato, quindi, il teorema che ha permesso di individuare nesso causale tra la condotta di T. - che ha omesso di informare i soccorritori circa il farmaco somministrato - e la morte di C.: il processo d'appello, perciò, dovrà essere nuovamente celebrato per accertare con sicurezza se dalle prove effettivamente raccolte nel corso del giudizio si possa dire che T. si sia rappresentato come conseguenza della somministrazione del midazolam la morte di C., e pur consapevole di questa eventualità ne abbia accettato il rischio.

La Cassazione, in particolare, esprime un concetto fortemente garantista: deve evitarsi di ricondurre nel “fuoco del dolo” ogni comportamento improntato a grave azzardo, come se la distinzione tra dolo e colpa si basi solo sulla quantità della sconsideratezza della condotta; il giudizio, infatti, deve basarsi sulle specificità del caso concreto e deve essere improntato a determinare se il soggetto tratto a processo volesse o meno la morte della sua vittima.

T., alla luce delle prove raccolte in giudizio, sarà sicuramente condannato per la morte di C., poiché non v’è dubbio sul fatto che questi sarebbe ancora vivo se T. non gli avesse somministrato il farmaco: la Corte d’appello dovrà rifare il processo per determinare se la pena da infliggere dovrà essere per dolo o per colpa.

Di: Manuela Calautti, avvocato

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